Il giro d’Italia tra i dialetti contemporanei

Andando in giro per l’Italia la cosa che mi ha sempre affascinato maggiormente è il sentire le parlate locali.

Percepire i suoni emessi dalle persone con cui interagisco, cogliere l’accento dato alla lingua italiana, captare le sfumature che una stessa parola può avere se pronunciata a Milano, a Bologna o a Napoli. Spesso si parla di dialetti, o più semplicemente, di parlate locali. Al giorno d’oggi è purtroppo sempre più difficile sentire un giovane parlare nel proprio dialetto, in particolare nel Nord Italia. Quello che rimane di questa varietà è spesso soltanto negli accenti e nella cadenza che viene data alla lingua italiana.

A mio parere ogni dialetto è una lingua e la distinzione di valore tra lingua e dialetto è solo una finzione politica. In Italia molti gruppi culturali tutelano le proprie lingue regionali. Oltre 160 anni di propaganda di stampo centralista al motto di “Uno stato, una nazione, una lingua” (lo stesso utilizzato in Francia), hanno però fatto perdere una piena coscienza di appartenenza culturale a molte di queste comunità regionali che, mentre fanno una politica chiaramente multilinguistica, chiamano le loro lingue “dialetti”, auto-confinandosi così in una sorta di museo a cielo aperto e negandosi perciò ulteriori sviluppi. A riguardo basti ricordare le parole scritte da Pier Paolo Pasolini: «Il “dialetto” diventa lingua, quando viene scritto e adoperato per esprimere i sentimenti più alti del cuore… per esprimere le proprie idee, il proprio sentire, i propri desideri». I dialetti sono anzi un valore aggiunto alla lingua ufficiale. Esistono peraltro illustri tradizioni letterarie legate ai dialetti; basti ricordare Carlo Porta a Milano, Gioacchino Belli a Roma e Carlo Goldoni a Venezia.

Ho sempre pensato che il dialetto e i suoi accenti linguistici siano lo specchio del terri- torio, anche geografico, in cui una persona vive. Spazi aperti e alte montagne determina- no così cadenze aperte nella forma ma chiuse nel profondo. La classica battuta scherzosa volta a identificare l’abitante di Torino, ossia “ti piace la mènta” (“e” con accento grave, pronunciata con una e molto aperta) mi fa pensare a una voglia di aprirsi agli altri solo in apparenza, per fermarsi poi subito, raffreddati dall’imponente e incombente catena delle Alpi. A Milano, invece, generalmente non si capisce mai se l’interlocutore stia facendo un’affermazione o stia ponendo una domanda. Questa è la cadenza tipicamente milanese. Milano è per molti la città delle opportunità. Una città piena di palazzi tra i quali il sole si affaccia nei varchi lasciati aperti, una città sempre in movimento e rivolta a un cambiamento costante. Linguisticamente pare quindi che il milanese voglia lasciare sempre uno spazio aperto a una possibilità, senza mai voler chiudere del tutto la porta. Scendendo un po’ troviamo il genovese. Genova è affacciata sul mare ma alle sue spalle dominata da un imponente territorio montuoso. La stessa parlata genovese, un po’ chiusa, ruvida e armoniosa nel contempo, fa venire in mente la perfetta unione tra mare e montagna. Tradizionalmente gente di mare, con i piedi però sempre per terra.

Arriviamo quindi al centro Italia: Bologna. Ah, l’emiliano, con quella cadenza che ti fa venire già voglia di fare festa. Parole aperte, accenti ampi, così come ampi sono gli spazi della pianura padana circostante. Ogni parola pare un invito. Un invito a ballare una mazurka, a mangiare un piatto di tortellini, a prendere la vita con leggerezza.

Per poi spostarci e giungere più a Sud. La sottoscritta, milanese di origine ma di radici meridionali, è sempre stata affascinata dal Sud Italia e dai suoi abitanti, dal suo cibo, dal suo calore. Ho sempre avuto molti amici meridionali. Ritengo che le cadenze linguistiche del sud Italia rispecchino in pieno il calore e la spontaneità dei suoi abitanti. Il sole meridionale che si specchia nei mari Tirreno, Adriatico e Ionio irradia e restituisce ai suoi abitanti una parlata piena, rotonda, calda. Mi viene in mente a esempio la pronuncia della parola “cuore” in napoletano: già a sentirne il suono si percepisce un’ondata di calore e pienezza.

Come avrete capito non sono una docente di linguistica e glottodidattica. Ho però studiato lingue e letterature straniere. Ovviamente conosco molti aspetti di glottodidattica legati alle lingue. Lo scopo di questo articolo non era però quello di scrivere un trattato come potrete trovarne tanti. Volevo solo comunicare la gioia e le emozioni che si provano nel percepire tante e diverse sfumature linguistiche.

La diversità è sempre una ricchezza. Per questo motivo non dovremmo mai dimenticare le nostre origini ed essere sempre pronti a cogliere le nuove sfumature che la nostra meravigliosa lingua ci offre, da Nord a Sud.

Diana Lisciandrano

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