Pensieri contemporanei: intervista a Mario Avagliano

È del cancro, Mario Avagliano, cinquant’anni il prossimo luglio. Scrittore, saggista e giornalista di Cava de’ Tirreni. Un curriculum invidiabile sia dal punto di vista professionale che autoriale. Oggi ricopre un ruolo di eccezionale delicatezza: è il responsabile delle relazioni esterne dell’ANAS.

Partendo dai dati sull’astensionismo elettorale, e in particolare sul crollo diffuso del numero dei votanti tra 1° e 2° turno delle ultime consultazioni, si può affermare che la partecipazione politica “affascina” sempre meno?

«Sì, è vero, e questo accade anche perché la seconda repubblica non è mai decollata. E la voglia e la speranza di cambiamento affiorate negli anni Novanta dopo la caduta del Muro di Berlino, il referendum elettorale sul maggioritario, la fine dell’epoca del pentapartito, l’arrivo di nuovi partiti e della società civile in Parlamento, non hanno purtroppo prodotto una nuova e credibile classe dirigente. La politica e la società italiana continuano a essere inquinate dalle tangenti, dalla corruzione, dalle raccomandazioni, dagli sprechi, dall’evasione fiscale e dalla logica delle corporazioni, che rischia di bloccare chi vuole riformare lo Stato, l’economia e le istituzioni».

Nell’immaginario collettivo si consolida la convinzione che i partiti siano concretamente in mano a grandi elettori. Secondo lei, è vero, perché? E chi sono?

«Mah, non ne sono affatto convinto. Sicuramente nella politica di oggi contano molto le leadership. Questo non è un male a priori, a condizione che le leadership siano scelte democraticamente. Più che i grandi elettori, a mio avviso il problema dei partiti oggi è in alcuni di essi la mancanza di spazi di democrazia reale e in altri, viceversa, l’esasperato correntismo, la tendenza a dividersi in fazioni l’una contro l’altra armata, incapaci di trovare una sintesi».

A suo giudizio, cos’è e quanto conta la credibilità in politica?

«La credibilità per me è far seguire alle promesse i fatti, oltre che ovviamente l’onestà. Conta molto, anche se spesso gli italiani tendono a dimenticare e, nonostante la conclamata incapacità, venditori di fumo continuano ad avere successo politico».

La politica di governo sembra annaspare nel tentativo di dare risposte concrete ai bisogni reali dei cittadini. I numeri disegnano un paese frammentato e al collasso. Qual è il senso di “partito liquido” lanciato da Renzi in una fase in cui l’offerta politica non riesce a incontrare la domanda?

«Io penso che questo governo stia tentando in modo incisivo di segnare una forte svolta nel nostro Paese, varando quelle riforme di cui l’Italia ha bisogno e che ha sempre rimandato: il lavoro, la scuola, il monocameralismo, la legge elettorale, il fisco, la pubblica amministrazione, il codice degli appalti, le unioni civili, la normativa anticorruzione. Non tutte le decisioni del governo possono essere condivise, ma lo spirito riformatore di Renzi è indubbio e indubitabile. Rappresentarlo come un leader conservatore è ingiusto e ingeneroso. Il mio giudizio di Renzi presidente del Consiglio è, quindi, molto positivo. Altro discorso è quello di Renzi segretario del partito democratico. Credo però che lui stesso si sia reso conto che il partito liquido aveva poco senso e che un’organizzazione territoriale più strutturata e una classe dirigente locale selezionata con maggiore cura siano indispensabili per realizzare il suo progetto di riforme».

Se è vero che la fiducia nelle istituzioni abbia toccato il fondo a quali rischi si espone il paese?

«Non è proprio così. Se vede i sondaggi, per esempio, si accorgerà che c’è una grande fiducia degli italiani nella figura del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Anche la sua candidatura è stata una proposta di Renzi. Comunque, io penso che se il Paese, come è nelle previsioni, tornerà a crescere e se il Governo e il Parlamento riusciranno ad approvare le riforme di cui si discute in questi mesi, agendo contemporaneamente sul lato della lotta agli sprechi e ai costi della politica, anche le istituzioni riacquisteranno gran parte della credibilità perduta».

Gli sbarramenti elettorali privano la rappresentanza parlamentare a molti milioni di votanti. Come si coniuga questo diritto negato con la necessita di governare? E, secondo lei, esiste una modalità alternativa?

«La nuova legge elettorale prevede uno sbarramento molto basso, di appena il 3 per cento. Mi sembra del tutto ragionevole e non vedo rischi di mancata rappresentanza dell’elettorato. Il secondo turno di ballottaggio, poi, è sicuramente una bella novità positiva, perché consente con assoluta certezza di avere attraverso il voto un governo con una maggioranza chiara, senza bisogno di inciuci o di grandi coalizioni tra forze programmaticamente diverse. Sostanziali e rapide trasformazioni culturali e tecnologiche farebbero pensare che in fondo non si stia peggio rispetto al secolo scorso».

Eppure, tra la gente si coglie una diffusa sfiducia nel futuro. Come si spiega questa che sembra essere un’apparente contraddizione?

«È vero, nonostante la crisi economica internazionale, le condizioni degli italiani di oggi sono di gran lunga migliori di quelle degli italiani di 30-40 anni fa, grazie ai progressi della tecnologia e ai servizi assicurati dallo Stato. Tuttavia, la disoccupazione giovanile è su livelli insostenibili e le nuove generazioni temono fortemente il futuro. Credo che per aumentare la loro fiducia si debba investire in modo più significativo nelle infrastrutture, nella cultura, nella scuola, nel turismo, nella riconversione ecologica dell’economia e dell’apparato industriale, in quei “beni” che rappresentano il vero patrimonio del nostro Paese e possono creare occupazione. La riforma della “buona scuola” mi sembra vada in questo senso, in modo deciso. Su cultura e turismo bisognerebbe fare di più».

Nel quadro istituzionale attuale sembra difficile definire quanto il Sud conti nelle priorità dell’agenda politica di governo. Quali sono secondo lei i motivi e cosa si può fare per riportare la questione meridionale al centro della partita?

«Mi sembra ci sia stata una svolta anche in questo. Renzi, Padoan e Delrio sono molto impegnati per il Mezzogiorno e ritengono che il rilancio del Sud sia cruciale per la ripartenza dell’economia italiana. Lo dimostrano anche gli investimenti previsti dal Governo e i nuovi programmi e piani del Ministero delle Infrastrutture».

Qual è il peso specifico delle attività politiche locali e in che modo possono influire sulle dinamiche delle strategie centrali?

«L’Italia dei mille comuni ha il dovere di ripartire dal basso. Bisogna, però, riorganizzare il sistema delle autonomie. La filiera Regione-Provincia-Comunità montana-Comune non ha funzionato e ha prodotto sprechi, aumento della spesa (e, quindi, debito pubblico), corruzione, moltiplicazione dei momenti decisionali, delle società partecipate e delle poltrone. È necessaria una semplificazione. Abolirei le comunità montane, accorperei i comuni piccoli e valuterei quale, tra regioni e province, sia l’organo più utile ai cittadini. I comuni restano l’ente più vicino agli italiani, quello che possono cambiare in meglio la qualità della loro vita. E dai comuni in questi anni è emersa l’unica classe dirigente del Paese affidabile o spendibile, da Renzi a Chiamparino».

La felicità è un argomento politico e perché?

«Il diritto alla felicità è riconosciuto dalla Dichiarazione d’indipendenza americana. Mi piacerebbe che anche in Italia fosse un principio da riconoscere a tutti i cittadini, nel lavoro, nella scuola, nella vita sociale».

Francesco Paciello

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