Intellettuali e Vigliaccheria

Il medico è odiato, forse più dell’uomo nero, dai bambini. È un dato di fatto e – tranne alcune eccezioni che pure ci sono – è comprensibile: associano la persona al ruolo, e il ruolo è indubbiamente quello di trovarsi sempre nei momenti peggiori. D’altronde, ben che vada, sono dolorose o disgustose medicine. E questo atteggiamento, in molti, se lo portano dietro anche da grandi. Si evitano con cura gli ambulatori, analisi e visite varie, e si preferisce la più semplice automedicazione o cura dei sintomi. Ciò non toglie, tuttavia, che i medici siano una soluzione necessaria, oltre che una risorsa incredibile.

In questi tempi moderni ci sono però mali che colpiscono trasversalmente le persone, giovani e vecchi, uomini e donne, facoltosi e meno abbienti: sono i mali della ragione. Ci sarebbero – e ci sono – dei medici che potrebbero porre rimedio a questi mali. Sono gli intellettuali. Ma in quello che è un triste epilogo della società dello spettacolo, gl’intellettuali – non tutti, per fortuna – si sono dati alla macchia, preferendo il più comodo ruolo di cortigiani, stimolando o cavalcando un senso comune che, altrimenti, si direbbe demagogia, per necessità sempre più organici a un sistema che ha come unica stella polare l’illusione totale e totalizzante non meno stupida e irraggiungibile di tutte quelle che l’hanno preceduta, ossia il profitto personale. È troppo evidente la vigliaccheria della maggior parte degli intellettuali, e la trasformazione in cortigiani è diventata così profonda ormai, che diventa impossibile trarne da questi una qualche analisi coraggiosa riguardo le questioni che i nostri tempi stanno percorrendo in maniera così prorompente. Quanto questa scelta sia socialmente pericolosa è già nel paragone: cosa fareste se, correndo esangui al pronto soccorso, trovaste il circo?

Beh, questa è forse l’origine della confusione che viviamo. Le contraddizioni che esplodono feroci e violente in un mondo sempre più globale, complesso e veloce, ci vedono smarriti e impotenti, lasciandoci, sempre più spesso, nell’indifferenza. Quando, però, immagini forti, come quelle che vediamo in questi giorni, ci scantano da questo sonno salvifico, da questo coma farmaclogico che ci procuriamo (coltivando le passioni, seguendo le pulsioni o subendo le compulsioni del momento, nascondendoci tra autentici o presunti gli affetti, affannandoci nel lavoro alla ricerca di uno sperato profitto o un’agognata emancipazione), per un istante riusciamo – forse – a vedere oltre la nostra normalità quotidiana. Quanto questo possa durare è presto detto: basta misurare la profondità di quel sonno nei giorni successivi. Siamo riusciti a tornare alla nostra vita “normale”? Abbiamo ripreso le nostre attività? L’indignazione – o cos’altro possa essere – ha lasciato il posto? Abbiamo ancora davanti agli occhi quell’immagine che ci ha così profondamente atterrito e impressionato? Domande semplici che ci suggeriscono risposte ben più radicali di quelle che vorremmo leggere seduti davanti al computer di casa o in ufficio, scorrendo un telefono nel treno o ancora distesi sotto un tranquillo sole settembrino.

Non siamo disposti a complicarci la vita per risolvere i problemi del mondo, né, tanto- meno è nostro compito, e comunque non saremmo in grado… Con un eccesso di cinismo potremmo dire che, in effetti, quell’immagine ci ha fatto finanche bene: ci ha indotto una reazione emotiva, ci ha provocato angoscia, turbamento, dolore. Abbiamo sofferto, forse pianto. Abbiamo così pagato il prezzo giusto che ci fa sentire migliori rispetto agli altri che avrebbero il compito di fare e non fanno.

La sinistra storica in questa cosa c’è cascata a piè pari, trasformando la solidarietà in buonismo paternalista, alimentando la retorica sui profughi e sull’azione umanitaria. Non sarebbe utile, per esempio, cominciare a pensare ai problemi che operazioni di falsa accoglienza stanno creando già? Se non si risolve adesso il problema dei CIE, come si può pensare di aprire a un piano europeo di accoglienza? E i problemi che si creeranno tra venti o trenta anni sui territori? Non è bastato l’orrore di scoprire che importanti personaggi del mondo istituzionale, commerciale e cooperativo hanno creato consorterie per sfruttare quelle infinite miserie? Perché la tratta degli ultimi – di questo si tratta – nella capitale non ha avuto la stessa risonanza dei signori dei terremoti della provincia? Non sono bastati gli esempi in paesi che, da ex colonialisti senz’altro più dell’Italia, e che più dell’Italia si sono dati da fare affinché un problema – l’immigrazione – si potesse trasformare in un’occasione di sviluppo, si sono ritrovati? La politica più pericolosa è quella che fa leva sui sentimenti delle persone. Così è autorizzata a prendere decisioni scellerate il cui conto, prima o poi, arriva per tutti.

Dove punti questa confusione, apparentemente, diventa chiaro appena dopo essersi asciugati le lacrime: il vecchio continente è sempre più vecchio, e c’è bisogno di forza lavoro nuova, e a basso costo, per continuare a tenere in piedi il sistema. Quello industriale, agricolo, edile, previdenziale, fiscale, e via dicendo. Non per altro questo orientamento è sostenuto per prima dalla nazione che “traina” la produttività dell’Unione, e subito dopo qualcun altro ha fatto la voce grossa per andarci appresso. Così come il “disimpegno” è oggi la linea dettata dalla maggiore delle potenze cosiddette occidentali. Le due sponde dell’Atlantico guardano con interesse a quello che avviene dall’altra parte del Mediterraneo. D’altronde, chi avrebbe davvero creduto di poter reggere la spinta dei cosiddetti paesi emergenti (che ricordo essere, in ordine non troppo sparso, Cina Brasile Russia e India) con la riforma del mercato del lavoro ordinata per legge?

Due le ipotesi, infine, per concludere questo primo contributo affatto esaustivo che – ci auguriamo – inauguri una discussione che occuperà le pagine di questo blog: la prima, e cioè che le migrazioni cui assistiamo siano fisiologiche, e allora la retorica può servire, nel senso che ce la possiamo permettere, che è nell’ordine delle cose e, anche se non mette e non toglie nulla, fa parte dei giochi. D’altronde su questa retorica c’hanno costruito una carriera negli ultimi trent’anni almeno molti di quei mestieranti che oggi ci troviamo in posizioni di rilievo, o comunque che contribuiscono in modo determinante a formare l’opinione pubblica; la seconda, invece, è che ci troviamo di fronte a qualcosa di relativamente nuovo, sia per dimensione del fenomeno che per interessi e forze in gioco, e allora la soluzione o passa per le armi – vai lì e imponi con l’uso delle armi dei mega-lager alla Salvini, ma la cosa non ci convince, per formazione culturale, tradizione storica, logica e animo – oppure vai lì lo stesso, ma a finanziare un’economia e una società sostenibile, contro problemi come carestie, siccità, epidemie e genocidi, investendo risorse economiche importanti, sapendo che il primo ostacolo che trovi sono quegli stessi interessi che, nel primo e secondo mondo, ti consentono di vivere sotto una campana lontano dalla miseria e dalle guerre.

In fondo, questa impotenza, è così tanto confortante.

Mimmo Oliva e Peppe Sorrentino

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