La Meglio Gioventù: la storia di Francesco Filippini e la voglia di rivincere

La storia che stiamo per raccontare parla di un ragazzo, un giovane disegnatore napoletano. Uno straordinario talento per l’animazione, anzi, si può dire che lui ci è nato con la matita. Ventidue anni, originario di Chiaiano. Un percorso professionale iniziato a 13 anni, fatto di incontri fortuiti, collaborazioni con personaggi al limite del grottesco, una esperienza profonda negli Stati Uniti, nomination a importanti premiazioni e festival. Ma sempre con la voglia di tornare a mettere radici nella sua terra, nel piccolo quartiere di Chiaiano, la sua Napoli. Francesco Filippini è un ex emigrante, col desiderio di costruire qualcosa di buono in Italia, al Sud. Nel suo tratto disegnato e nella sua risata libera, si sente la fragranza di quella particolare tradizione napoletana che appartiene alla narrazione orale, la necessità di raccontare la vita e la morte, le brutture, gli indimenticabili difetti, le passioni e la potenza creativa di una terra, Napoli che, nonostante tutto, ancora oggi, resta dimora – come disse Pier Paolo Pasolini – di «una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare». Francesco porta con sé quella tradizione, sa dove vuole arrivare. Studente dell’Istituto d’Arte Filippo Palizzi – che non ha mai ultimato – è stato candidato ai David di Donatello per il cortometraggio animato “Orkiestra” e uno dei progetti al quale ha collaborato con il disegnatore statunitense Bill Plympton è stato inserito nella rosa dei candidati all’Oscar 2016 per miglior cortometraggio d’animazione. Ora collabora con la Mad Entertainment di Napoli, diventata famosa per aver realizzato il film d’animazione “L’Arte della Felicità”. Grafico, illustratore, regista, sceneggiatore, compositore. L’artista napoletano è solo all’inizio.

Francesco, quando hai capito che il disegno era il tuo destino?

«A me è sempre piaciuto disegnare. Poi un giorno ho deciso di provare a farne un la- voro. Ci sto provando. Il primo progetto nel campo della grafica fu quello di impaginare un libro. Si intitolava “The True Sparano’s Story”. La storia di Patrick Armond Francke. Diceva che avevano copiato la storia della sua vita facendone una serie tv. Quella serie era “The Sopranos”. Realizzai la copertina. È stata una coincidenza molto strana partire con questo libro. Mi convinse a farlo dicendomi che i proventi sarebbero stati dati in be- neficienza. Il lavoro non mi fu mai accreditato. Avevo 13 anni e usai il nome di mio padre per farmelo pagare».

Com’è iniziata l’avventura negli Stati Uniti?

«È stata un’altra coincidenza molto strana. Tutto è nato dall’incontro con una signora americana che ha una casa a Napoli, Ann Pizzorusso. Stava scrivendo un libro sulla geologia e sull’arte in Italia. Era in visita al centro storico di Napoli ed entrò all’interno del palazzo dell’attuale Istituto d’Arte Filippo Palizzi, dietro Piazza Plebiscito. Rimase affascinata dagli archi bellissimi della struttura. In realtà stava cercando un ragazzo che le facesse le illustrazioni per il suo volume. Fu così che i professori decisero di segnalare me, visto che avevo già esperienza nell’impaginazione. Quello con Ann è stato un pro- getto durato alcuni anni, una fruttuosa collaborazione, grazie alla quale sono poi finito a New York, partecipando a diversi festival dei libri. Avevo 17 anni e mi ritrovai in quella grande città. Il libro ha ricevuto molti premi. Tra questi, quello per la miglior copertina, l’Interior Book Design allo Usa Best Book Awards del 2014».

Lì hai incontrato Bill Plympton?

«A Manhattan. Mi misi a cercare studi di animazione. Trovai il suo. Salii da lui senza appuntamento e gli presentai i miei lavori. Prima abbiamo realizzato uno spot, dove ho avuto un ruolo marginale per avvicinarmi alla produzione. Quando siamo arrivati ad una sintonia, mi ha proposto di fare l’art director del suo cortometraggio. È nato così il lavoro di “The Loneliest Stoplight”, la storia – ambientata in una strada deserta del Texas – di un semaforo che, in seguito a un incidente stradale tra una macchina e un cavallo, viene installato in mezzo a quello sterminato e solitario deserto americano».

In realtà, però, tu già lavoravi nel campo dell’animazione.

«Sì. A Napoli. Ho iniziato realizzando un cortometraggio autoprodotto quando avevo 16 anni. Scrissi la storia, feci i disegni e composi la musica. Un cortometraggio che non mi piaceva particolarmente, ma lo feci visionare dai ragazzi dello studio di animazione Mad Entertainment. A loro piacque molto. Mi convinsero a produrlo e fu nominato ai David di Donatello. Si intitolava “Orkiestra”. La verità è che non sto un attimo fermo. Faccio un milione di cose. Queste sono quelle che hanno fatto più rumore.»

A proposito di rumore, “The Loneliest Stoplight”, è finito tra i candidabili agli Oscar.

«Era nella short list, quelli candidabili, che sono una trentina. Di questi, cinque vanno alla premiazione».

Andrai ad Hollywood?

«Non penso. Sono solo due gli invitati. Andranno sicuramente Bill e la moglie. Ma posso già fare una previsione. Vincerà la Pixar».

C’è differenza tra il lavoro di disegnatore in Italia e Usa?

«In America fanno i film per fare i soldi, in Italia si cercano i soldi per fare i film».

Adesso collabori con lo studio di animazione Mad. Progetti in cantiere?

«Lo studio è a lavoro su “Gatta Cenerentola”. Poi c’è il cortometraggio di cui sto curando tutti gli aspetti. Sceneggiatura, regia, disegni. Si intitola “Simposio suino in re minore”. Un progetto che nasce quando ero a New York e sentivo la nostalgia per Chiaiano che è il mio paese, il paese dove vivo. La storia è di un maiale. Mi sono rifatto alle fiabe di tradizione orale napoletane. Una tradizione che continua a esistere a Napoli, a differenza di altre città. Qui posso mettermi ad ascoltare la mia prozia che mi racconta tutte le storie, come si faceva una volta. Per esempio, mi raccontava che lei, quand’era piccola, vivevano in casa con il maiale. Era simbolo di ricchezza, avere un maiale, e, quindi, dovevano proteggerlo dai ladri. Queste atmosfere sono andate a costruire il contorno della mia storia. Ho immaginato la periferia di Napoli negli anni ‘30, quando ancora non era stata corrotta da tutto, l’ultimo periodo in cui ancora si riuscivano a conservare le nostre origini. Oggi l’americanizzazione si nota in qualsiasi cosa. Il lavoro verrà prodotto da SkyDancers [quest’ultima aveva prodotto il film di John Turturro, “Passione”, ndr.], con la produzione esecutiva della Mad Entertainment e il riconoscimento da parte del Ministero dei Beni Culturali.»

Napoli. Cos’è per te?

«La mia origine».

Un consiglio ai giovani?

«A quelli che non vogliono avere un lavoro di impiegato, ma essere capi di se stessi, il consiglio è fare qualsiasi cosa, non stare mai con le mani in mano aspettando che qualcuno scenda dal cielo e gli porti la santità tra le mani. Fare qualcosa tutti i giorni. Prima o poi la strada viene da sé».

Perché, secondo te, i giovani lasciano il nostro Paese?

«Nel campo artistico è molto semplice capire il motivo. Qui non c’è il merito. Tuttavia, per strada sento che qui c’è molta voglia di cultura, c’è quasi un rinascimento che non c’è negli altri paesi come l’America. Vedere qui i musei che chiudono, i palazzi storici deturpati fa venire voglia di rivincita. È il motivo per cui ho scelto di fare questo cortometraggio qui. Farlo in America sarebbe stato come far cadere una goccia in un lago, qui può avere la potenza di una cascata. Dunque, va bene emigrare, è un’esperienza. Poi però c’è il bisogno di difendere il proprio territorio. Altrimenti è facile lamentarsi quando non si fa niente di pratico».

Davide Speranza

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