“Chi sono i viaggiatori?”: Napoli, Javed e la domenica del kebab
Il profumo della domenica a Napoli è sempre stato quello del ragù. Ore e ore di bollitura, a partire dal sabato, per servire l’indomani il piatto ricco a tutta la famiglia riunita.
La domenica la città partenopea si acquieta. Il tran tran delle oltre due milioni di persone che ogni giorno calpestano il suolo napoletano si ferma, e sono poche le voci che senti udire dai vicoli, se non quelle delle donne che richiamano a tavola i figli scugnizzi e i mariti giocatori di schedina dell’ultimo momento. La domenica è il giorno della messa, per alcuni, e del ragù, per tutti. Non c’è frenesia nel consumare un pasto così sacro, puoi goderti il silenzio della città fino a tardo pomeriggio. A meno che tu non sia un turista o uno studente fuori sede.
I miei anni a Napoli non hanno mai avuto il sapore del ragù. Sporadicamente riscaldavo quello precotto da mia madre, ma non mi sono mai azzardata a immischiare la mia inesperienza culinaria a una così sacra tradizione gastronomica. E non c’era quel rituale affettivo di vivere la tavola e raccontarsi la settimana trascorsa. Non c’era lo zio che ti domandava «a quando la laurea?», «e il fidanzato?». Sotto una luce diversa, è stata una specie di fortuna. Le domeniche avevano il sapore della polvere di smog posizionata sui balconi che affacciavano su via Duomo. Di tanto in tanto, quello della pizza di Michele. E troppo spesso quello del kebab di Javed.
Io e Javed ci siamo conosciuti nel 2006. Il consiglio universitario che aveva programmato orari e luoghi in cui si svolgevano i corsi, aveva deciso che noi studenti dell’Università “L’Orientale” avessimo necessariamente dovuto possedere il dono dell’ubiquità. Non bastavano venti minuti di orologio per percorrere a piedi la distanza tra una sede e l’altra. Io non sono mai stata una ragazza modello, o meglio ancora modella, né tanto meno ho mai pensato di saltare un pasto per la diatriba fonetica di Linguistica Generale. E quindi cosa poter consumare alla velocità della luce per pranzo? Il kebab.
Il kebab è un piatto tipico della cucina turca. A base di carne, è divenuto popolare in tutto il mondo grazie alle immigrazioni provenienti dal Medio Oriente. Così dice Wikipedia. “Carne arrostita” è il significato etimologo della parola araba بابك, o forse quello che vorrebbero farci credere. Ma poco importava, era economico e sembrava saziante e masticabile in meno di dieci minuti. Una digestione della durata dei lavori della Salerno – Reggio Calabria ti accompagnava per tutta la giornata suggerendo continui attacchi di narcolessia.
Nella piccola bottega fatiscente adiacente il bellissimo Monastero di Santa Chiara in cui lavorava Javed ho consumato molti pranzi. Mangiavo l’imitazione di un piatto turco e ammiravo la bellezza dell’architettura napoletana. E in quegli anni io e Javed siamo diventati amici, non semplici conoscenti. Forse lui sa ancora molto poco di me, io al contrario ho avuto modo e tempo di conoscere molto bene il signor Malik. Malik era il suo cognome, ma si faceva chiamare Mario. Quando arrivi a Napoli e sei un immigrato proveniente da un paese orientale, e il tuo nome o è difficilmente pronunciabile o comunemente è la versione odierna del nome di Maometto, la prima cosa che “devi” fare è sceglierti un nome napoletano. In questo modo sarai facilmente riconoscibile e considerato “integrato”. Ho sentito svariate volte urlare il suo nome da centauri che sfrecciavano davanti al suo negozio e gli domandavo “’nu kebab veloc’ veloc’ “. Non l’ho mai chiamato Mario. Per me era Javed, 38 anni, una laurea in Agraria, e 4 figli concepiti quasi tutti negli anni in cui viveva già a Napoli. Proveniva da un piccolo villaggio a 300 km da Islamabad, Pakistan, e vi faceva ritorno una volta all’anno per ricongiungersi con la famiglia e affrontare il pellegrinaggio a La Mecca. Ogni volta che tornava, dopo pochi mesi, riceveva una telefonata dalla moglie che lo informava di essere incinta. E via di festa. Non ricordo quanti tè al latte e cannella ho bevuto per brindare alle nascite dei suoi figli.
La nostra amicizia negli anni si era così fortemente consolidata che un giorno decise di invitarmi a pranzo a casa sua. “Casa” è un eufemismo. Era un garage di 30 metri quadrati al centro storico, abitato da altre quattro persone oltre a lui. Ammetto che all’inizio fui titubante per la proposta, non sapevo cosa aspettarmi. Forse nonostante non avessi mai avuto preconcetti, i miei dubbi abitavano in una qualche specie di piccolissima e ben nascosta sezione pregiudizio. Ho accettato quell’invito e ne sono rimasta entusiasta.
Di certo non avrei mai immaginato che a un pranzo pakistano la metà del tempo lo avrei trascorso a visionare filmini di matrimonio. Invece fu proprio così. Come quando vai a fare visita a tua cugina Concetta e lei ti inchioda al divano facendoti la telecronaca minuto del minuto del suo giorno più bello, mentre la tv proietta quel video che avrai già visto altre mille volte e il marito dorme accanto a te, rispondendo sporadicamente con un deciso “sì” a ogni slancio di gioia della moglie.
Cinque ore di pollo piccantissimo, tè e matrimoni in stile Bollywood. Ma soprattutto cinque ore di sorrisi, racconti entusiasti e ricordi racchiusi in quelle reali quattro mura. Uno dei miei preferiti era il pellegrinaggio a La Mecca. Ho sempre ammirato la sua dedizione religiosa, quel suo modo di raccontare qualsiasi cosa attraverso gli occhi. Sono stati i suoi aneddoti a insegnarmi che la fede è un’opportunità in più, e non un’arma a doppio taglio. Ogni volta che ritornava da un pellegrinaggio sembrava come essere rinato. Aveva la stanchezza impressa nel volto ma la gioia nel cuore. Ḥajj è il pellegrinaggio islamico canonico a La Mecca, la città santa per i musulmani, e costituisce il quinto dei pilastri dell’Islam. Originariamente significava “dirigersi verso”, e obbliga ogni fedele che ne abbia le possibilità fisiche ed economiche a compiere, almeno una volta nella vita, i riti che compongono il ḥajj. Per quel che riguarda Javed, a me non sembrava una costrizione. Negli anni napoletani avrà affrontato il viaggio almeno due volte, e quando faceva ritorno sembrava essere sempre un uomo, non tanto diverso, quanto migliore.
Javed non era un migrante, un rifugiato. Come me era un semplice fuori sede, con la differenza che tornava casa ogni due-tre anni. Ha sempre avuto la consapevolezza di fare una scelta di sacrificio, con la prospettiva, un giorno, di fare ritorno in patria e mettere su un’attività agreste con il fratello maggiore. Il fratello si era sposato da poco, il matrimonio – il cui filmino è stato il primo della lunga serie che mi propose di vedere – lo pagò Javed e fu una grande festa, durata quasi tre giorni. Ricordo la mia espressione terrorizzata alla sua affermazione «di solito durano anche di più». Tutto a un tratto i matrimoni nostrani che iniziano alle sette del mattino e finiscono alle quattro di notte mi sono sembrati una passeggiata.
A ogni modo, il fratello di Javed ci ha lasciato quest’anno, e ha portato via con sé buona parte dei sogni del mio amico pakistano.
Javed mi ha accolta in una delle città che più mi faceva paura. Era la Napoli post “guerra degli scissionisti”, la Napoli raccontata in malo modo dai media e dall’ideologia provinciale come terra di nessuno. Io non la conoscevo e mi stavo approcciando a essa con un atteggiamento sbagliato. Lui mi ha accompagnato nella mia formazione da adolescente a quasi donna, come un padre, e sicuramente come un amico. Di Napoli mi sono innamorata poi, e questo lo devo anche a lui, ai pranzi di 10 minuti, alle bottiglie di acqua lanciate dalla bottega quando correvo da una sede all’altra durante i caldi mesi estivi, ai messaggi di buon compleanno e agli abbracci che mi toglievano il fiato. È stato il mio primo e vero amico “napoletano”.
Questa storia non ha un lieto fine, o meglio ancora una fine vera e propria. La stiamo ancora scrivendo io e Javed, che vive sempre a Napoli preparando piadine e panini in stile turco per gli studenti e lavoratori di turno. All’alba del nostro decennale d’amicizia, è il viaggiatore più appassionato e altruista che abbia mai conosciuto, e talvolta la domenica ha ancora il sapore del suo kebab.
Fedora Alessia Occhipinti