Alfonso Amendola racconta Marco Amendolara, il poeta dell’inquietudine

Su chi sia Marco Amendolara e cosa abbia rappresentato per critica e poetica contemporanea non bastano di certo le poche righe sommarie riportate di seguito. Volendo, però, tracciare una cartografia immaginifica, è possibile provare a ricostruire l’operosità di un narratore totalmente immerso nella sua contemporaneità, avvolto in un’aura mistica – a tratti metafisica – che lo ha ugualmente spinto verso un processo identificativo sempre più complesso e stratificato col concetto di “Natura”.

E proprio attraverso il racconto di Alfonso Amendola – docente di Sociologia degli audiovisivi sperimentali presso l’Università di Salerno – è stato possibile ripercorrere le tappe principali che hanno caratterizzato questo processo di maturazione: «Marco Amendolara nasce a Salerno e fin dall’età di 14 anni inizia a occuparsi di poesia, celandosi inizialmente dietro lo pseudonimo di Omar Dal-Mirò, fondendo così assieme due grandi passioni: la cultura del mondo arabo (Omar) e la propria naturale propensione per l’arte di due grandi artisti del Novecento (Dalì e Mirò). Tutta la sua prima produzione è strettamente legata alla poesia francese – in particolare Baudelaire – così come al genio letterario di Oscar Wilde, a cui dedicherà un pamphlet apprezzatissimo dalla critica che di fatto sancirà la nascita di un giovanissimo poeta». Col passare del tempo, l’attività di Amendolara va consolidandosi fino a ricucirsi addosso linee stilistiche e tematiche ben delineate e che saranno ricorrenti nella sua poesia: «In Marco è sempre stata presente una vertigine d’inquietudine oltre che una riflessione legata al senso estetico – spiega Amendola – così come la percezione della solitudine, senza tralasciare (soprattutto nelle sue ultime pubblicazioni) un rapporto viscerale col concetto di “natura”, intesa come destinataria delle proprie riflessioni e parte di un “tutto” di cui il poeta ha sempre desiderato sentirsi partecipe». Appartengono, infatti, al periodo che anticipa la tragica dipartita del poeta (risalente al 2008) il corpus poetico poi sublimato nella raccolta postuma “Il corpo e l’orto”, dove si scorge un Amendolara che auspica per se stesso una sorta di ricongiungimento col grembo materno e fertile della natura.

Poeta, scrittore, traduttore, consulente editoriale, critico d’arte, critico letterario e organizzatore culturale, Marco Amendolara è uno dei segreti meglio custoditi della cultura nostrana. Un segreto che l’Associazione Marco Amendolara – di cui fa parte lo stesso Alfonso Amendola – ha deciso di svelare e condividere con cultori e appassionati. Sarà presentato oggi, a Salerno, “La passione prima del gelo” – volume che raccoglie l’intera opera poetica dell’intellettuale salernitano. In dialogo con Alfonso Amendola, abbiamo cercato di segnare confini e annientare distanze.

In un paese che tende a dimenticare i suoi figli migliori, mi chiedevo se la riflessione su Marco Amendolara non rappresenti anche uno sforzo – da parte di associazione e seguaci – d’invitare a una sensibilità culturale, troppe volte assente sia a livello locale che nazionale.

«Sicuramente, quella della sensibilità culturale è una componente significativa e che rientra pienamente nelle attività che riguardano la figura di Amendolara. Va considerato che Marco scompare nel 2008 – come scelta volontaria – e a partire dallo stesso anno, su richiesta di amici e lettori, nasce l’Associazione Marco Amendolara che s’incarica di lavorare sul suo lascito memoriale: prende forma da qui la pubblicazione de “Il corpo e l’orto” e il più recente volume definitivo “La passione prima del gelo” – pubblicato da Edizioni La Vita Felice di Milano, con un saggio critico di Alessandro Ghignoli – che annichilisce il suo disagio in vita d’esser costretto a pubblicare esclusivamente per piccole casi editrici e restituisce dignità all’immensa potenza creativa di cui era capace. Questo tomo racchiude ben 23 anni di poesia e offre la possibilità di seguire un unico filo conduttore su cui è stata imbastita tutta la sua attività poetica. Uno degli obiettivi principali è sicuramente divulgare questi piccoli miracoli letterari e inserire Marco nel panorama che più gli compete, ovvero quello di respiro nazionale».

È soprattutto l’inquietudine a connotare gli scritti di Amendolara, sempre lucido nell’analizzare la contemporaneità. Ma come avrebbe vissuto, secondo lei, il progressivo disagio sociale dei nostri tempi?

«Sinceramente, credo che Marco avrebbe vissuto tutto sulla propria pelle così come si deduce anche dai suoi ultimi scritti. Purtroppo, aveva in qualche modo smarrito quel filtro salvifico che è l’ironia lasciandosi ad andare a un’inquietudine sempre più intensa che lo ha portato al desiderio di dissolversi definitivamente. Questi sono solo degli azzardi d’ipotesi ma sono certo che la sua grande sensibilità non lo avrebbe di certo lasciato indifferente».

Il titolo del corpus poetico definitivo “La passione prima del gelo” mi ha fatto ripensare a un libro letto di recente – Leonardo Sciascia de “La scomparsa di Majorana” – dove la tensione alla dissoluzione diventa un elemento quasi imprescindibile: è questo il “gelo” a cui si fa riferimento?

«Ammetto che il nesso è perfettamente attinente. La grande generosità, la grande passione che anima Amendolara collima con la straordinaria figura di Ettore Majorana, a sua volta ossessionato dall’idea di scomparire senza lasciare traccia. Nell’ultima produzione di Marco c’è la stessa tensione, che differisce soltanto nella volontà di dissolversi non tanto nelle cose quanto nella natura. È la condizione estrema di chi si è donato tanto senza risparmiarsi mai e che trova nell’allontanarsi dalla vita terrena l’unica via d’uscita».

C’è un’eredità, una sorta di lascito, che lega Marco Amendolara al nostro presente?

«Al momento sento di poterne evidenziare almeno due: da un lato, la grande qualità di scrittura, traducibile nella ricerca del bello lessicale – mai ozioso – e della fluidità scrittoria; dall’altro, il suo malessere, il suo defilarsi – come in Majorana – che lo porta, però, anche a un dialogo sempre più serrato con la “natura”, che è probabilmente il lascito più grande che potesse regalarci questo poeta nostrano: la necessità di ritornare a un unicum naturale che rispecchi anche l’essenzialità del nostro mondo interiore».

Carmine Vitale

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