“(Ri)scrivere con la luce”: storia di un fotografo, ma non solo
«Un film sulla vita di un fotografo? Forse per cominciare sarà bene ricordare l’origine della parola: in greco “phôs” significava luce e “graphè” scrivere, disegnare. Un fotografo è alla lettera qualcuno che disegna con la luce, un uomo che descrive e ridisegna il mondo con luci e ombre». Wim Wanders, il regista de “Il sale della terra” (2014) insieme a Juliano Ribeiro Salgado, inizia così il suo film introducendo con poche parole l’opera del protagonista. «Una cosa l’avevo già capita di questo Sebastião Salgado: gli importava davvero degli esseri umani. Questo significava molto per me. Dopotutto, gli essere umani sono il sale della terra».
La pellicola racconta la vita e l’opera di quello che viene considerato uno dei più grandi fotografi del mondo dei nostri tempi. E i motivi di questo riconoscimento sono facilmente intuibili, basta guardare anche solo una foto di Salgado per capire quanto significhino le sue produzioni.
“The Salt of the Earth” è costituito da un’alternanza di fotografie e interviste a Salgado e ad alcuni membri della sua famiglia (il padre, il figlio, la moglie). Il tutto parte dal racconto di come sia nato il “fotografo”: dopo essersi trasferito a Parigi con sua moglie, Lélia, l’acquisto di una macchina fotografica da parte di quest’ultima fa nascere una scintilla di passione in Sebastião, che così inizia la sua avventura. Nel 1994, insieme alla compagna, fonda l’agenzia Amazonas Images: e da il via alla raccolta, e poi pubblicazione, dei primi reportage. Nel documentario ci si è concentrati soprattutto su alcuni progetti: “The Other Americas” (insieme di foto dell’America Latina),” Sahel: The End of the Road” (testimonianza delle condizioni di vita dei popoli africani), “Workers” (i lavoratori in giro per il mondo), “Migrations” (raccolta di immagini sulle grandi migrazioni umane), “Exodus”. Infine, dopo aver assistito alle crudeltà di cui è capace l’uomo e per questo aver affrontato una crisi circa la sua esistenza e passione, Salgado ritorna con una produzione sulle terre ancora non contaminate dall’uomo che intitola “Genesis” (un progetto collegato anche a quello di rimboschimento della tenuta di famiglia, poi divenuto parco nazionale nella zona della Mata Atlantica), a tal proposito Wenders dice:
«Non ha soltanto consacrato “Genesis” alla natura, ma è proprio la natura ad avergli permesso di non perdere la sua fede nell’uomo».
Dal documentario emerge chiaramente l’obiettivo finale che fa muovere il protagonista: ovvero il fatto di voler denunciare quello che accade nel mondo, di portare alla luce fatti, condizioni, eventi, davanti ai quali noi più fortunati tendiamo a girare la faccia dall’altra parte. Questo prodotto audiovisivo racconta la sensibilità di un uomo che vuole essere artefice, testimone e fautore di un cambiamento dentro e fuori di sé, all’interno dell’animo altrui e all’esterno nei luoghi del potere.
Una delle cose che più colpisce, tra le altre, è la durata delle fotografie sullo schermo: il 268
tempo impiegato per guardare ogni singolo istante immortalato lascia a ognuno altrettanto tempo per memorizzare ogni dettaglio, rifletterci sopra e lasciare senza parole. Tanti pensieri in testa, difficili da esprimere.
Salgado, tramite le sue fotografie, racconta l’uomo all’umanità: rende la verità evidente agli occhi di tutti.
«Fotografavo queste cataste di morti. […] Tutti dovevano vedere queste immagini, vedere l’orrore della nostra specie. […] Quando sono andato via, ero malato, molto malato. Il mio corpo era malato, non avevo nessuna malattia infettiva: la mia anima era malata».
Federica Ruggiero