Guido Dorso e il Mezzogiorno: la ricerca dei 100 uomini d’acciaio

Sin dall’Unità d’Italia s’è iniziato a parlare di una Questione Meridionale. Non possiamo fare a meno di citare Pasquale Villari, nato nel 1817 a Firenze, e noto per la sua raccolta “Lettere Meridionali” in cui esponeva le problematiche ancora presenti nel Mezzogiorno, anche a distanza di un decennio dall’Unità. Villari, insieme ad alcuni suoi collaboratori, fece il possibile per porre all’attenzione di tutti i grandi problemi che attanagliavano (e purtroppo attanagliano) il Mezzogiorno d’Italia: quelli economici, infrastrutturali, culturali e politici. Da quel momento la Questione Meridionale divenne un problema nazionale e, da lì in poi,, tanti meridionalisti come Nitti, Fortunato, Franchetti, Rossi Doria hanno provato a ipotizzare una soluzione. Tra i tanti spicca la figura di Guido Dorso, che ha dedicato la maggior parte della sua vita nel cercare di trovare una soluzione per il Sud, a provarci almeno.

L’esordio della sua carriera politica si deve far risalire alla collaborazione con il “Popolo d’Italia”, il quotidiano fondato da Mussolini. In realtà essa fu una collaborazione abbastanza breve, scrisse solo pochi articoli, poiché Dorso fu chiamato al fronte orientale in occasione della prima guerra mondiale. Tornato in patria, iniziò a scrivere per il “Corriere d’Irpinia” con cui poté sempre più constatare la durezza del regime fascista e quindi la sua contrarietà a quest’ultimo, per l’agire e i metodi. La sua avversità e il suo scrivere inizia a suscitare l’interesse di Piero Gobetti, antifascista, che lo invita a collaborare con la sua rivista “La Rivoluzione Liberale”. Proprio attraverso questa collaborazione nacque uno dei saggi più conosciuti di Dorso: “La rivoluzione meridionale”. In questo saggio egli affermò che la rivoluzione liberatrice dal regime fascista non deve partire dal Nord e poi estendersi al Sud, ma al contrario deve partire e vedere protagonista il Mezzogiorno, infatti egli affermava che: solo dove gli uomini hanno molto sofferto e si sono continuamente domandati se vivevano in uno Stato o in una colonia, è possibile concepire concretamente una rivoluzione statale. Dorso in un certo senso accusa lo Stato centralista di aver sfruttato l’arretratezza economica, culturale e politica del Mezzogiorno per averne il controllo e per interessi particolari. La rivoluzione doveva partire dal Sud proprio perché covava in sé una forza ribelle che poteva cambiare le intere sorti del Paese.

Ma tutto ciò non avvenne. Gli anni della guerra furono molto duri per il Sud, tra bombardamenti e sbarchi, e la divisione in due dell’Italia, aumentarono sempre più il divario tra le due parti del Paese, che dall’8 settembre del 1943 iniziarono a vivere due esperienze diverse: un Sud monarchico sotto controllo alleato e un centro-nord sotto controllo nazifascista.

Proprio nel 1943, dopo anni di silenzio, Dorso iniziò a parlare nuovamente. Appena avvenuta la caduta del fascismo riprende il discorso interrotto dal ventennio, anni in cui Mussolini risolveva la questione meridionale semplicemente non parlandone più. Dorso vedeva nel dopoguerra la grande speranza per il Sud, poiché abbattuto il vecchio Stato, comodo strumento nelle mani di ristretti nuclei privilegiati, potrà finalmente costruirsi, anche in Italia, lo Stato di tutti, lo Stato che per mantenersi non ha bisogno dei colpi di Stato e della dittatura, e che non pretende sopravvivere anche quando ha gettato la Nazione, non sull’orlo, ma in fondo al più nero precipizio. Dorso vedeva nel dopoguerra il riscatto del Mezzogiorno, tutto ormai era stato distrutto e bisognava quindi ricostruire, rialzarsi, uscire dall’esperienza più dura della storia unitaria, e tutto ciò era possibile solamente con il capitale umano e soprattutto con i giovani meridionali. Ma Dorso sapeva bene che tutto ciò non era semplice, egli infatti si poneva il dubbio: Ma esiste una nuova classe politica del Mezzogiorno? Esistono cento uomini d’acciaio col cervello lucido e l’abnegazione indispensabile per lottare per una grande idea? Oppure la nostra dolce terra perderà un’occasione più unica che rara e continuerà il suo duro martirio… Questo è l’interrogativo amletico che caratterizza il momento presente, e a esso potrà rispondere soltanto la gioventù meridionale. In queste sue ultime parole la sua speranza sembra quasi una certezza a cui però non potrà mai assistere. Dorso verrà a mancare il 5 gennaio del 1947, tutte le sue speranze, riposte nel dopoguerra verranno tradite: la rivoluzione non è mai avvenuta, l’élite politica e culturale non si è formata e i giovani del Sud, allora come oggi, scappano dal meridione. In 70 anni i cento uomini d’acciaio non si sono visti, allora la domanda si pone spontanea: ci saranno mai cento uomini d’acciaio? O meglio, ci saranno cento uomini che avranno a cuore la causa del nostro Mezzogiorno? Per il momento al Sud aspettiamo, come purtroppo abbiamo sempre fatto.

Davide Speranza

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