L’era digitale: gli effetti antropologici e cognitivi sul vivere sociale

Era il 1992 quando venne inviato il primo sms della storia. Un banale “Merry Christmas” da parte di un ingegnere britannico 22enne di una società appaltatrice della Vodafone UK. Di lì, nell’incoscienza della massa, il nostro modo di comunicare sarebbe andato incontro a un destino che i puristi della lingua avrebbero categoricamente condannato. Comunicare attraverso uno schermo implica un’esigenza di immediatezza che deve tener conto dell’assenza dell’interlocutore, dell’incapacità di spiegarsi attraverso la gestualità, che pure gioca un ruolo fondamentale nel dialogo, e della limitatezza offerta dalla quantità massima dei caratteri che possono essere impiegati. Risultato? Sempre più si fa ricorso alle abbreviazioni, che si sedimentano nella mente dei digital native (i più influenzati dalla cultura digitale), diventando parte integrante di una “sintassi digitale” che spazza via quella tanto sudata sui libri di grammatica. Se con l’invenzione del telegramma nel XIX secolo Filippo Tommaso Marinetti espresse con amarezza la morte, di lì a breve, della sintassi, con la comparsa dei cellulari, e ancor più degli smartphone, i puristi della lingua dicono addio al buon uso della lingua italiana. Che l’era digitale nasconda parecchie insidie, a cui l’uomo sembra non essere più in grado di sfuggire è un dato incontestabile. Si parla, oggi, di abilità multitasking del mondo digitale che l’uomo ha piacevolmente scoperto. Facebook, Twitter, Instagram, Outlook…: vi è mai capitato di postare una foto su Facebook e nel frattempo controllare la posta, mentre l’occhio cade di sguincio sull’ultimo commento lasciato al nostro ultimo post su Instagram e, magari, tentare disperatamente di rispondere a un sms? Ecco, quella è l’abilità multitasking. Ma l’eccitazione di poter controllare e gestire più settori non è direttamente proporzionale all’efficienza con la quale si porta a compimento ogni singola operazione. Siamo avvezzi a una forma mentis che predilige l’iperattività piuttosto che la predisposizione a terminare una data cosa prima di passare a un’altra. La capacità di sintesi, che pure una buona scuola ci ha insegnato, si è trasformata in circolo vizioso che ci dà la sensazione che stiamo realmente facendo qualcosa, quando nella realtà non abbiamo fatto nulla. È assolutamente evidente che essere impegnati in più attivati contemporaneamente ci rende stressati, poco inclini all’efficienza, oltre a disperdere le nostre energie in qualcosa che ha ben poco di produttivo. Sovviene, bellissima, una citazione di John Lennon: «La vita è ciò che ti succede mentre fai altri progetti». Ad hoc, per sottolineare come perdiamo istanti di vita preziosa, e quasi non ce ne accorgiamo. Abbiamo perso la cognizione dell’attimo. Ho dedicato mezz’ora del mio tempo a osservare le persone in coda al supermercato, qualche giorno fa. Credo di aver rilevato che solo due, su una quindicina, erano realmente “in attesa”. Le restanti erano “impegnate” a controllare gli ultimi post su Facebook e a contare i like alle proprie foto su Instagram. Cresce l’alienazione. «Gli oggetti si mondializzano, i soggetti si tribalizzano»: così sentenzia lo scrittore francese Régis Debray, con un pizzico di sarcasmo e lucido realismo. Un’affermazione agghiacciante, che sintetizza un fenomeno recente. La morte dell’individualismo a favore del proliferare di identità collettive è un dato quantomeno accertato e visibile a occhio nudo. I medici la chiamano Internet Addiction Disorder, la nuova malattia che si traduce in una dipendenza ossessivo-compulsiva verso tutto quello che la rete offre. Ma cosa si cela dietro questo spasmodico bisogno di rifugiarsi dentro uno schermo? Esattamente quello che nella realtà vera, quella di tutti i giorni, quella quotidiana e a volte banale, dovrebbe verificarsi: la ricerca del contatto. Il bisogno di condivisione è il dato che maggiormente emerge se proviamo a fare una semplicissima analisi dei contenuti pubblicati sui social network. Una foto, uno stato d’animo, l’esternazione di un sentimento di rabbia o di gratitudine, la possibilità di racchiudere la propria vita in una “griglia” a portata di mano, il districarsi fra l’on-line e l’off-line: la verità è che è molto più semplice filtrare le proprie emozioni piuttosto che esporle, perché in questo modo abbiamo l’illusione di preservarci dalla delusione, senza però rammentare che la vita, quella vera, passa attraverso la messa a nudo di se stessi.

Anna Paolillo

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