La storia di un detenuto all’Icatt di Eboli che dice: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”
«Insomma la sua è la storia di una gioventù bruciata. Quand’è finita?
“Mai, perché io non ho avuto una gioventù. La mia è la storia di una grande solitudine. Sono sempre stato solo e ho sempre dovuto pensare a sopravvivere nel mondo. E a 15 anni mi sono ritrovato in carcere in mezzo ai peggiori assassini”».
Così Edward Bunker rispondeva a un giornalista de “L’Unità”, in un’intervista del 6 giugno 2002, tre anni prima di morire durante un’operazione chirurgica, all’età di 71 anni. Per chi ha letto romanzi come “Animal Factory”, “Cane mangia Cane”, “Educazione di una canaglia”, sa chi fosse quest’uomo. Romanziere, attore cinematografico, sceneggiatore… e detenuto. Bunker attraversò il mondo attraverso la disperazione di un’America il cui sogno si era già consumato da tempo, ma nessuno lo ammetteva. Truffe, rapine, estorsioni, traffico di droga. Quello che sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori statunitensi, faceva il pari e dispari con le carceri più dure.
Dietro quelle sbarre, Edward sviluppò l’amore per la scrittura. Lui, come altri, riuscì a canalizzare il demone dell’adrenalina dentro le carni dell’arte, riposizionando la propria esistenza lungo i binari della creatività e della produzione letteraria. Un esempio nostrano è Salvatore Striano, ex detenuto, oggi romanziere e attore (ha collaborato con Matteo Garrone, i fratelli Taviani e Ascanio Celestini). Certo, è facile individuare l’istante in cui scatta la scintilla che prepara al cambiamento. Più articolato è capire lo scatto emotivo che porta una persona a delinquere. Cattive compagnie, status sociale disastroso, ignoranza. Spesso, inesprimibili fratture interiori, l’autismo del vorticoso e cinico uragano della società. Le parole redenzione, recupero, libertà, famiglia acquistano un sapore diverso e sconosciuto. La vita, quella quotidiana, diventa un punto senza confini. L’espansione di quel punto, in una cella di pochi metri quadrati, dipende da una quantità enorme di variabili. Essere rinchiusi in un carcere dovrebbe essere condizione fondante per un reintegro nel mondo libero. Ma sappiamo che non è sempre così, sappiamo come l’immagine di quelle lunghe sbarre di ferro – anche a causa dell’immaginario proveniente dai film americani – o di quelle porte blindate riprese nei telegiornali, ci riportino a ben altri scenari. Qual è lo stato delle carceri in Italia? Secondo uno studio di “Internazionale”, basatosi su dati dell’associazione Antigone, il sovraffollamento (il cui tasso sarebbe del 106% in Italia) è uno dei talloni d’Achille del nostro sistema carcerario, con detenuti privi di posti letti o che vivono in spazi ristretti. Per chi volesse informarsi, ecco l’articolo della rivista. Insomma, quando si parla di carcere si cammina su bicchieri di cristallo, si deve far fronte alle pieghe più oscure dell’animo umano e anche del proprio.
Quando ho deciso di intervistare, per “La Meglio Gioventù”, il 31enne Francesco Polito, sapevo che sarebbe stato un incontro particolare. Francesco si trova all’I.C.ATT di Eboli, un Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento delle Tossicodipendenze e/o Alcoldipendenze. Un edificio che si trova nella pancia del Castello medievale di Eboli, su una altura. Qui si respira la storia del territorio: il castello venne realizzato in sostituzione di una piccola fortezza longobarda e subì nel XV secolo diversi restauri su indicazione di Antonio Colonna, nipote di Papa Martino V. Oggi, quel castello è diventato Casa Circondariale, dove il lavoro del direttore Rita Romano – puntuale, umana, appassionata – tende a ripristinare condizioni di equilibrio sociale per i detenuti. Avevo incontrato Francesco durante una manifestazione organizzata nella scuola media Fresa/Pascoli di Nocera Superiore: una giornata dedicata alla memoria, al riscatto, alla legalità e alla testimonianza dove alcuni detenuti parlavano agli studenti della propria esperienza di vita. Quando ci siamo ritrovati in una saletta dell’Icatt, la condizione era diversa. Non c’erano ragazzini, non c’erano insegnanti. Non c’erano filtri emotivi. Piano piano, le parole del giovane detenuto hanno iniziato a decollare, a spaccare la dura terra della diffidenza. Francesco parlava con gli occhi e quindi con la verità. Il suo è un percorso non ancora terminato ma sta ricostruendosi un’esistenza, una nuova visione del mondo. Sul braccio si è fatto tatuare le date di nascita del figlio e del padre, più la scritta “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Barista in un locale e guardiano al M.O.A (Museo dell’Operazione Avalanche) – grazie ai programmi di recupero dell’Icatt, seguiti dalla dottoressa Romano – Francesco ha trovato la scintilla, quella stessa che trasformò piano piano il giovane Edward Bunker in un grande scrittore.
Francesco, raccontami della tua famiglia.
«Il mio contesto familiare mi è stato sempre vicino. Non vengo da quei quartieri difficili. Vengo da Eboli. Mia madre ha sempre lavorato, è infermiera in cardiologia. Mio fratello è ingegnere. Io invece ho basato la mia vita sulla tossicodipendenza, frequentando amicizie di quell’ambiente. Ti trovi così a fare dei casini, piccoli reati. Inizi a fare passi più grandi, inizi a camminare da solo».
La prima volta che sei venuto in questo istituto.
«Nel 2008. Avevo 23 anni. Ma la sfortuna è stata che la mia condanna era piccola, dovevo scontare un anno e mezzo per spaccio. Ho iniziato a fare un percorso, ma era breve e subito sono uscito con la misura alternativa dell’affidamento. In 10 mesi non hai capito niente, è come se non fossi stato proprio in carcere. Non c’è stato il tempo di lavorare su di te. Quando ho rotto la misura alternativa, sono andato al carcere di Fuorni. Qui dovevo scontare un anno. Mi è arrivata poi una condanna vecchia e sono ritornato a Fuorni con una condanna di due anni e 8 mesi. Là vedi la differenza tra l’istituto di Salerno e questo di Eboli. Ho fatto una richiesta per tornare qua e mi è arrivato un cumulo di pene fino a 11 anni. Ho ripreso, così, il mio percorso. All’inizio avevo problemi. Mi ero lasciato con mia moglie. Presi una fissazione con l’alimentazione. Mangiavo e vomitavo. L’equipe dell’istituto si è concentrata su questa problematica. Superata, ho iniziato a lavorare su me stesso, per affrontare la detenzione. Ho iniziato a fare teatro, falegnameria».
Quando hai iniziato a lavorare?
«È stato grazie al miglioramento che ho dimostrato. Mi è stato proposto il beneficio del lavoro esterno. Il magistrato me l’ha concesso. Mi ritengo fortunato. Il primo lavoro l’ho fatto sul mio territorio, lavoravo come volontario al comune di Eboli. La dottoressa Romano mi ha dato una grande dimostrazione di fiducia, ha creduto in me. Certo non è stato semplice, lavorare dove ho frequentato i mie amici, dove ho fatto male alle persone e a me stesso. All’inizio avevo paura, una paura dentro. La paura di tutto, di rivedere persone che frequentavo, che mi potevano fare del male e coinvolgere. Il direttore ha preso un progetto a Battipaglia per un bar confiscato alla camorra, Caffè 21 Marzo. Un giorno mi è arrivata una telefonata. Mi inserirono in questo progetto. Mettere un detenuto in un bar al centro di Battipaglia non è facile. Fortunatamente è un anno che lavoro là. Ma in un primo momento avevo ancora vergogna. Non andavo a lavorare da libero, mi sentivo osservato. Avevo paura di essere giudicato. Poi le cose sono andate bene. Sto alla cassa ed è una grossa responsabilità. È una grande vittoria. Se non fossi entrato in questo istituto, non avrei mai avuto una soddisfazione come questa. Adesso, ho ancora da scontare 4 anni e sto bene».
Cos’è per te una famiglia?
«Rappresenta le fondamenta. E ti rendi conto che quando entriamo in carcere, gli affetti diventano la prima cosa. Mentre, magari, quando stavi fuori, non la pensavi proprio a mamma. Sono fortunato per il fatto che la mia famiglia continua a starmi vicino».
Ricordi quando hai deciso di imboccare una strada senza uscita?
«No. È avvenuto tutto mano mano. Dicono che si inizia dallo spinello. A volte danno colpa alle cattive compagnie. Ma forse la verità è che ti manca qualcosa dentro. Quando ti manca qualcosa dentro è difficile scoprire cos’è.
Come intendi costruire il tuo presente per il tuo futuro? Cosa vedi avanti a te?
« Attualmente voglio finire il mio percorso e uscire da qua, non solo per trovare un posto di lavoro. Voglio arrivare al punto che le persone possano vedermi come il Francesco che lavora nel bar, insomma rientrare nella società. Credo che una persona che ti vuol bene, lo vede il cambiamento. Ma una persona che osserva da fuori, crede che il detenuto si comporta bene per non essere chiuso. Io invece voglio stare tranquillo e ho deciso di cambiare la mia esistenza».
Fiducia e cambiamento. Per te cosa sono?
«Se non c’è la fiducia, il cambiamento non puoi averlo mai. Per me cambiamento è fiducia».
Come si svolge la tua giornata qui?
« Di mattina mi alzo alle 6 e alle 6.30 prendo il pullman, apro il bar, pulisco i tavolini, faccio i cornetti. Me lo devo pulire a modo mio il locale, so come tenere sistemato tutto. Poi all’una mi danno il cambio, vado a casa, mi faccio una doccia e alle 16 vado al bar fino alle 23. Nell’istituto continuo a fare teatro. Sono stato al Giffoni Film Festival, dove abbiamo dato in scena “E fuori nevica”. Il teatro mi è servito a parlare con la gente, a stare a contatto con le persone. Se non avessi fatto teatro, non avrei avuto la capacità di parlare come adesso. Il primo spettacolo che ho fatto è stato nel 2012, su Vassallo e la sua vita».
Se dovessi dire qualcosa a tuo figlio rispetto al tuo passato e all’oggi?
« Mio figlio ha 8 anni. È una domanda un po’ difficile. Attualmente… la verità? Non me la sento di dirgli qualcosa. Non mi sento ancora pronto per dargli consigli e avere questa responsabilità. Devo prima stare bene io. Quando sarò pronto completamente e lui sarà cresciuto, può darsi che sarà troppo tardi. Ma devo essere pronto a diventare padre. Adesso sono ancora figlio».
Se tu dovessi stare davanti a uno specchio, cosa ti diresti?
« Lo specchio me lo porto ogni giorno appresso. Sto vivendo giorno per giorno. Devo migliorare e il miglioramento avviene gradualmente. Sempre ti devi guardare allo specchio, anche quando le cose non vanno bene.
Nei tanti incontri nelle scuole, gli studenti che cosa ti danno e cosa senti di dare a loro?
«Il primo impatto di quando entri in una scuola è forte. Poi inizi a parlare col cuore e loro ascoltano. Quando fai una cosa col cuore, stai bene tu e stanno bene loro. Andiamo negli istituti scolastici portando la nostra testimonianza. Ci andiamo per i ragazzi, certo. Ma è una cosa buona anche per noi. Parlare davanti ai bambini non è facile. Ma ti liberi. Quando esci fuori ti dici “Va bene, ho regalato una mia emozione”».
Davide Speranza