La Giornata della (non) MemorIa?
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione da parte degli italiani dei cittadini ebrei, gli stessi italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia e la morte, nonché coloro che, anche se in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, anche a rischio della propria vita salvando altre vite e protetto i perseguitati”
Questo è il primo articolo della legge 211/2000 riguardante “l’istituzione del Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. Attraverso questa legge è stata istituita anche in Italia la Giornata della Memoria, che – attraverso “cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni” – ci ricorda “quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia del nostro Paese”.
Ma oggi ha ancora senso celebrare la Giornata della Memoria? Oppure è diventata anch’essa solamente una ritualità?
Sono tante le voci di studiosi e di intellettuali che stanno portando avanti la tesi di uno svuotamento del significato della “Giornata della Memoria” in favore di una spenta ritualità e di vuoti incontri istituzionali. Sempre più il 27 gennaio è diventato il giorno di convegni e incontri sulla Shoah, appuntamenti molto spesso organizzati senza troppo impegno, svalutando ancor di più l’argomento, tanto da riporre il giorno dopo tutto nel cassetto, in attesa del “rito” dell’anno successivo.
Proprio su questo concetto si basa il lavoro cinematografico del regista ucraino “Sergei Loznitsa”, che – partito da una sua esperienza personale – ha girato un documentario all’interno del campo di concentramento di Austerlitz. Il cortometraggio ha visto la luce il 25 gennaio e ha provato a rispondere a una domanda fondamentale: È possibile celebrare la memoria dell’Olocausto nell’epoca del turismo di massa? Senza che si corra il rischio che i lager divengano attrattiva turistica al pari di un parco giochi o di un’attrazione circense? Quello che è visibile in qualche spezzone di film è tristemente prevedibile. Il posto del silenzio e della Memoria viene immortalato dal “selfie” d’obbligo sotto la scritta “Arbeit macht frei” nel solco dei “like” sui social. Non sono rare nemmeno le foto dietro al filo spinato, quasi a simulare di voler prendere il posto dell’internato, con tanto di faccia sofferente, provando a dare un reale tocco da attore al tutto o – addirittura – assumendo la posa per una immaginaria fucilazione. Si passeggia per i campi di concentramento – che escono dalla dimensione della conoscenza che ne fornisce questo o quel documentario – sgranocchiando qualcosa, magari ridendo e scherzando, riducendo tutto a una gita turistica. Ha affermato Sergei Loznitsa: «Questi centri commemorativi rappresentano l’esatto contrario di ciò che dovrebbero essere: non luoghi della memoria, ma della dimenticanza».
Se un Campo di concentramento o di sterminio non riesce a “riattivare la Memoria”, figuriamoci se ci riesce un convegno o una qualsiasi altra manifestazione realizzata superficialmente.
Questa teoria dello svuotamento della Giornata della Memoria si avvalora ancor di più a causa del periodo storico attuale. Sembra quasi che molti leader politici mondiali non abbiano mai sfogliato o studiato una pagina sul genocidio o sull’odio razziale oppure che abbiano deciso di dimenticare definitivamente ciò che è accaduto nel recente passato e di tutte le sue conseguenze. Questa sarebbe l’unica spiegazione per l’ottusità della politica scellerata di Donald Trump con la creazione di un muro divisorio tra Messico e Stati Uniti d’America. Ma, ancora più grave, è che in Europa stanno emergendo nuovamente gli estremismi, nel totale oblio di un passato pesante. Ed è così che al posto di trovare un legame nella Memoria comune, i partiti di estrema destra hanno trovato il loro collante nell’individuazione della “invasione” degli immigrati come capro espiatorio di tutti i mali dell’Europa. Si passa da Salvini in Italia al Fronte Nazionale di Le Pen, dai movimenti neo-nazisti tedeschi fino al fiammingo Vlaams Blok. Tutti fanno appello a un ritorno a un passato migliore.
Proprio l’idea del passato che può ritornare è alla base del film “Lui è tornato”, pellicola tedesca basata sull’omonimo bestseller satirico di Timur Vermes. La trama è molto semplice: Hitler ritorna nel 2015 a Berlino. Il fuhrer, spaesato viene scambiato per un imitatore del vero Hitler, con tanto di divisa e accento, e diventa un fenomeno televisivo. La televisione aveva bisogno di lui e lui aveva bisogno della televisione: tutto ciò facendo man mano riemergere i valori estremisti in Germania. Il film non è molto lontano dalla realtà: quante volte i mass media o i social hanno etichettato Salvini o Trump – giusto per fare due nomi – come dei comici, ma che proprio per questo hanno avuto sempre più spazi televisivi, facendo sempre più proseliti. Il film ci mostra un’Europa debole che non sa dare risposte, mentre Adolf Hitler ne è capace. Questo crea una reale confusione nello spettatore. Un po’ come oggi: la soluzione a tutto è “prima gli italiani” o “prima gli americani”, così da portar fuori da ciascuno di noi una piccola parte di Adolf Hitler, come viene affermato anche nel film.
Esiste un antidoto a tutto ciò? Se sì, quale? Nel film, ironia della sorte, l’antidoto è una anziana ebrea malata di Alzheimer, che non si fa ingannare dalle parole rassicuranti del comico e subito riconosce in lui il vero Hitler. Anche se può sembrare banale, la memoria è l’unico antidoto per evitare di ricadere nel vortice del becero razzismo e dell’intolleranza. E la memoria riemerge con il silenzio. Quando ci troveremo davanti a un campo di sterminio, l’unico modo per capirne il senso è il silenzio: sarà solo quello a parlare, creando in noi un senso di incredulità davanti alla crudeltà dell’essere umano. Probabilmente è l’unico modo per capire, per tentare di capire, così come quando in Polonia alla mia domanda sul significato di Aushwitz, ricevetti solo uno sguardo rassegnato e un lungo silenzio. Quel silenzio è valso più di mille spiegazioni.
Galante Teo Oliva