Intervista a Pasquale Raicaldo: “Così ho raccontato il terremoto di Ischia”

21 agosto 2017. Ischia. Ore 20.57. Pomodorini e petto di pollo sul tavolo. La cena. La scossa di terremoto di magnitudo 3.6 (poi ricalcolata di magnitudo 4). Il black-out. Tutti in strada. E poi comincia il lavoro di cronista.

A parlare è Pasquale Raicaldo, giornalista di Repubblica, a Napoli. Ischia la conosce bene, ci vive e la spiega ogni giorno, sulle pagine del suo giornale.

Il suo racconto è importante: i cronisti gente che vive di strada, di fatti, di cose che accadono; eppure, quando le cose capitano proprio a loro, dove vanno a finire le emozioni? La paura, l’ansia, l’angoscia. Dove sono?

Dov’eri al momento della scossa?

«A casa mia, a Ischia Ponte. Terzo piano di una palazzina, ha tremato tutto. Ho avvisato il giornale. E ho iniziato a scrivere. Terminato il pezzo, mi sono fiondato sui luoghi del sisma».

Qual è la prima immagine che ricordi?

«La palazzina accartocciata di Casamicciola. Un blob indistinto di cose, senza un filo logico. Un’auto schiacciata, un peluche, i sanitari. Dentro, c’erano Alessandro e i tre bimbi. Non sapevamo come sarebbe andata a finire».

Il timore di non riuscire e la responsabilità di raccontare anche la storia di Ciro, Mattias e Pasqualino, i tre fratellini rimasti sotto la palazzina crollata di Casamicciola. I vigili del fuoco iniziano un lavoro incessante durato 17 ore. Mamma e papà aspettano, tremano, pregano e sperano. I vigili del fuoco traggono fuori tutti e tre i bambini. Ancora eroi: come durante il terremoto in Emilia, quello che ha colpito il Centro Italia esattamente un anno fa, e come durante la tragedia di Rigopiano.

Pasquale, hai seguito l’intera vicenda.

«Arrivi sul posto e raccogli le prime informazioni. I nomi, qualche dettaglio. Dopo un’ora sei parte della storia: conosci Ciro, Mattias e Pasqualino. Sei, con i parenti, ma non ti senti un intruso. Perché sei lì per raccontare, e lo fai in tempo reale. Anche con Facebook. C’è un popolo che aspetta di sapere, che freme. Privilegio e responsabilità: informare dai luoghi del disastro. Quando hanno tirato fuori Pasqualino, il bimbo di sette mesi – continua – ci siamo abbracciati tra colleghi. E poi tutta la notte, il freddo, e ancora l’alba, e il sole che picchia, il caldo. Lo sconforto del papà, poi le piccole gioie: Stanno litigando tra loro. E le grida dei vigili del fuoco: Ciro, stiamo arrivando. Fino all’epilogo, Mattias e Ciro tratti in salvo. Indimenticabile».

Qualche piccolo trauma contusivo e tanta paura ma i bambini stanno bene. Ciro riceve 458

la telefonata di Mertens, il suo idolo: dopotutto il calcio resta sempre il primo pensiero di un bambino di 11 anni.

«I vigili del fuoco non sentono la fatica – mi dice – quando ci sei dentro comprendi che esistono davvero eroi silenziosi che salvano vite, mettendo a rischio la propria».

Aveva ragione Kapuscinski: il cinico non è adatto a fare questo mestiere.

La parte più importante del tuo lavoro, Pasquale, è il racconto nonostante la paura, l’angoscia e il dolore. Come hai gestito queste emozioni? Prima di tutto sei una persona.

«Quando siamo arrivati sui luoghi del terremoto, ci siamo subito accorti che era insicuro essere lì. E non sapevamo se ci sarebbero state altre scosse. Avevamo però un compito: raccontare. L’adrenalina ha annullato la paura, che pure è umana. Ma ho vissuto emozioni vere, assecondandole. Le ho raccontate su Facebook, dove è forse emerso di più il lato personale, naturalmente secondario nel mio racconto su Repubblica. Abbiamo gioito per i bimbi, ci siamo commossi, abbiamo abbracciato persone che fino a qualche ora prima non conoscevamo. Siamo stati parte di una storia, in fondo, anche noi che l’abbiamo raccontata».

Quella frase pregiudizievole al sud è tutto abusivo ha risuonato anche questa volta. Nelle ore immediatamente successive al terremoto, infatti, si è parlato di abusivismo con accuse molto pensanti. Che idea ti sei fatto?

«Tema delicato. C’è una questione di adeguamento al rischio sismico che è solo in parte riconducibile al tema dell’abusivismo. La palazzina crollata aveva subito un ampliamento, una inchiesta stabilirà se e quanto ciò abbia inciso nel crollo. Però Casamicciola sa, dalla notte dei tempi, di essere a forte rischio terremoto: ignorare la storia, non ridurre al minimo il rischio, è una grave responsabilità delle amministrazioni che si sono succedute negli anni».

Casamicciola sa e se fosse ancora vivo, potrebbe raccontarlo Benedetto Croce che nel 1883, durante l’ultimo gravissimo terremoto che sconvolse l’isola verde, perse il padre, la madre e la sorella. Ora bisogna ripartire. Ischia è un’isola che conosci benissimo. Qual è lo stato d’animo delle persone?

«Questo è un territorio dalla forte identità. Si sta già risollevando. Matteo, che non si lava i piedi dal giorno della scossa, tornerà a suonare la chitarra. Martina e Francesca, che gestiscono un albergo danneggiato e inagibile, hanno destinato i pomodori dell’orto agli sfollati. Giovanni, a 92 anni, è forte come un leone: si appoggia dallo zio. Luciana dorme in giardino, eppure oggi organizza un laboratorio per i bimbi di piazza Majo».

C’è qualcosa di profondamente orgoglioso, oggi, nell’essere ischitani. E prescinde dalle gravi responsabilità di chi ha costruito, male, in zone ad alto rischio sismico. C’è qualcosa che hai deciso di non raccontare?

«Ho raccontato tutto. Ma ho provato a farlo senza assecondare la curiosità pruriginosa e morbosa di chi magari mi chiedeva, in privato, dettagli e particolari che non ritenevo influenti. Ho evitato, sempre, anche dopo sedici ore in piedi davanti alla palazzina, di anticipare quello che poteva succedere».

Chi scrive non ha da aggiungere altro.

Anita Santalucia

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