Glifosato: il veleno nel piatto
Il glifosato è un composto chimico utilizzato come diserbante di post-emergenza non selettivo: questo vuol dire che dopo circa cinque sei ore dalla diffusione, la pianta lo assorbe e non riesce più a utilizzare i micronutrienti utili per la sua stessa vita; agisce senza distinzione.
La storia:
– anni ’50, il chimico Henry Martin lo sintetizzò ma non lo brevettò;
– anni ’70, la Monsanto, azienda multinazionale americana fondata nel 1901, lo riscopre casualmente. Inizialmente veniva utilizzato nei campi prima della semina per liberarli dalle erbe infestanti, successivamente, con l’avvento delle piante geneticamente modificate (OGM) resistenti al pesticida, cominciò a essere impiegato nei campi con le piante in crescita; la fortuna della Monsanto è proprio quella di aver ideato un “pacchetto completo” e cioè la vendita del diserbante e delle sementi OGM resistenti al composto; proprio questa idea, ha portato la Monsanto a essere una delle prime aziende al mondo per fatturato, nonostante il brevetto del glifosato sia scaduto nel 2001.
– 2010, la Monsanto ha venduto il glifosato a ben 130 Paesi nel Mondo e insieme all’erbicida i semi geneticamente modificati;
– 2013, la Monsanto ha fatturato circa 14.5 miliardi di dollari;
Dal 2014 a oggi il glifosato era uno dei diserbanti più venduti perché ritenuto poco tossico per uomini e animali e di facile degradazione, così da non inquinare le falde acquifere.
Nel 2015 le cose cambiano: la IARC, International Agency for Research on Cancer, organismo dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) riunisce un team di esperti, provenienti da 11 Paesi diversi, per analizzare i possibili collegamenti tra gli agricoltori che utilizzano il glifosato e il linfoma non-Hodgkin, tumore del sistema linfatico. Gli agricoltori presi in esame sono americani, svedesi e canadesi e questo non a caso visto che sono Paesi che utilizzano abbondantemente la sostanza. Lo studio porta alla conclusione che ci sono sufficienti prove per un collegamento glifosato-tumore, tanto che la IARC lo classifica come “probabile sostanza cancerogena” e lo include nella categoria 2 B. Lo studio viene pubblicato sulla rivista scientifica “The Lancet Oncology”. Questo episodio comincia a porre il glifosato sotto una lente di ingrandimento.
Qualche mese dopo l’EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, nega i risultati della IARC definendoli poco precisi e scientifici. L’EFSA fa presente che la “potenziale pericolosità” è stata dimostrata in vitro, cioè in laboratorio, ma la società non ha trovato prove sufficienti della pericolosità sull’uomo, cosa ben differente; inoltre spiega che la categoria 2B è molto ampia, includendo anche carni rosse, fritture, DDT, etc. In ogni caso l’EFSA propone nuovi livelli di controllo sull’erbicida e sugli alimenti trattati con l’erbicida stesso.
La risposta dell’EFSA allo studio condotto dalla IARC crea una spaccatura sia tra gli addetti ai lavori che tra la popolazione: c’è chi crede che la sostanza possa essere pericolosa per gli uomini sia in modo diretto che in modo indiretto, tramite l’assunzione di cibo trattato e chi crede che sia il solito allarmismo e che una sostanza inclusa nella categoria 2B non sia dannosa.
La Commissione Europea decide in ogni caso di limitare l’utilizzo del glifosato che quindi non può essere più impiegato nelle aree verdi, come parchi giochi, giardini, campi sportivi e ricreativi e in agricoltura nel periodo precedente alla trebbiatura e il raccolto, momento in cui facilmente la sostanza rimane nel prodotto destinato alla vendita, non può essere adoperato.
Nel 2016 il Ministero della Salute italiano decide di seguire la raccomandazione della Commissione Europea, e per una volta, siamo i primi in Europa a recepire il documento. Il resto dell’Europa non è così virtuosa approfittando del fatto che la Commissione raccomanda la limitazione della sostanza nelle aree verdi ma di anno in anno proroga il suo utilizzo in agricoltura, aspettando che l’Echa (Agenzia europea per la chimica) termini i suoi studi sull’impatto che possa avere tale erbicida sia sulla salute dell’uomo che sull’ambiente.
Sempre nello stesso anno l’ECHA termina i suoi studi, proclamando la volontà di non classificare il glifosato come sostanza cancerogena; secondo l’agenzia “le prove scientifiche a oggi disponibili non raggiungono i criteri per classificare il glifosato come cancerogeno, agente mutageno o tossico per la riproduzione”. Il glifosato mantiene la sua pericolosità per quanto riguarda il rischio di causare danni agli occhi e per l’essere tossico per flora e fauna acquatica.
Il verdetto dell’ECHA non è di poca importanza: l’UE cosciente del crescente dubbio sulla possibile pericolosità del glifosato, ha posticipato l’approvazione per il rinnovamento dell’utilizzo della sostanza, legandolo proprio al risultato dello studio dell’agenzia.
La decisione dell’ECHA anzi di chiudere la spaccatura tra chi crede nella pericolosità della sostanza e chi no, ha alimentato ulteriormente il dibattito. Le associazioni ambientaliste hanno denunciato l’agenzia perché molti dei suoi membri hanno lavorato in passato per aziende chimiche e quindi si sono trovate palesemente in conflitto di interesse. La stessa agenzia ha risposto alle accuse, ricordando che è nel loro modus operandi effettuare controlli e verifiche sul loro personale proprio per evitare l’esistenza di conflitti di interesse.
La soddisfazione della Monsanto per la decisione dell’ECHA è breve: in America deve fare i conti con un gruppo di malati oncologici (linfoma non-Hodgkin) e con delle accuse più o meno velate che vedono al centro Jess Rowland, funzionario dell’EPA, Agenzia per la protezione dell’ambiente, che ha inoltrato alla stessa Monsanto informazioni sugli studi che stava svolgendo la IARC e con la promessa che avrebbe fatto il possibile per evitare ulteriori indagini da parte del Governo; in Europa poi cominciano a nascere o rafforzarsi associazioni contro l’utilizzo della sostanza e la presa di coscienza della popolazione.
In Italia, nell’ottobre del 2016 nasce a Foggia per volontà di alcuni produttori di pasta, l’associazione GranoSalus. Obiettivo principale dell’associazione è quella di difendere i consumatori, dando voce direttamente ai produttori di grano. L’idea nasce quando il presidente Saverio De Bonis, si rende conto che i limiti imposti dall’Unione Europea, sui livelli di contaminazione possibili nei grani europei, non possono essere sicuri per i consumatori italiani; infatti questi limiti tengono conto del consumo medio di pasta in Europa, senza prendere in considerazione che il consumo italiano di pasta è almeno il doppio rispetto agli altri Paesi.
Come se non bastasse i controlli europei sulle derrate alimentari sono quasi del tutto inesistenti. Granosalus, attraverso le sue petizioni, sta lottando per far abbassare i limiti di questi livelli di contaminazioni, imposti dalla UE. L’associazione promuove inoltre il principio di precauzione, lo stesso che viene attuato nei confronti dei prodotti OGM, prodotti geneticamente modificati, e che quindi sposterebbero sul consumatore la scelta di acquistare o meno un prodotto con un determinato quantitativo di glifosato. La lotta dell’associazione prevede anche un’analisi periodica della qualità tossicologica sui cereali con annessa una graduatoria, in modo da rendere il consumatore consapevole dei propri acquisti.
Granosalus non è l’unica a combattere questa situazione; insieme a lei ci sono Greenpeace, Coldiretti, Slow Food, Fair Watch, uniti per evitare che questa problematica diventi ancora più rilevante dall’attuazione del trattato Ceta. Il Ceta, Accordo economico e commerciale globale, è un trattato di libero scambio tra Canada e Unione europea, che entrerà in vigore il 21 settembre del 2017. Il Canada è uno dei maggiori esportatori di grano; i problemi principali sono due: non avendo un clima adatto, il grano prodotto presenta diverse micotossine, cosa che a esempio non avviene nei grani italiani, soprattutto in quelli siciliani, che grazie al clima temperato, non permette la nascita di queste; inoltre il Canada utilizza fortemente il glifosato e altre sostanze simili. A oggi queste derrate raggiungono i nostri porti per essere utilizzate come mangimi per gli animali.
L’UE per il momento chiude un occhio su questa situazione, non volendo collegare che un animale che si nutre di mangime contaminato, essendo destinato al macello, comunque il glifossato e le micotossine arriveranno nel nostro piatto. I controlli quasi inesistenti poi portano alcuni produttori a mischiare i cereali contaminati canadesi, poco costosi, con quelli italiani ed è proprio per questo Granosalus sta provvedendo a effettuare dei controlli sulla qualità, pubblicando poi i risultati.
Di questa situazione poco chiara se n’è occupato in prima persona Cosimo Gioia, agricoltore siciliano ed ex dirigente generale del Dipartimento Agricoltura della Regione Sicilia, il quale ha visto con i propri occhi attraccare le navi canadesi contenenti derrate piene di micotossine. Secondo l’ex dirigente, nel momento in cui ha cercato di fare chiarezza su quanto stesse accadendo, è stato destituito dalla carica.
Il Ceta, come tutti i trattati di nuova generazione, trae i suoi numerosi vantaggi non dall’abbattimento delle barriere tariffarie che rallentano gli scambi, ma di quelle tariffarie: ossia regole, standard di prodotto, di processo, che difendono la sicurezza del consumatore, pur generando costi aggiuntivi per le imprese. Il Ceta porterà queste tematiche a un livello successivo: non solo avremo la problematica delle micotossine e del glifosato ma di tanti altri principi attivi che fino a oggi sono proibiti in Europa; uno tra tanti è il paraquat, ritenuto l’erbicida più tossico in circolazione e che fa ammalare decine di lavoratori impiegati nell’agricoltura. Per la sua pericolosità il paraquat è stato bandito da oltre 40 Paesi e viene utilizzato unicamente nei Paesi in via di sviluppo e in Canada, dove la Sygenta, azienda svizzera che lo produce, ha una propria sede.
Altro risultato dell’accordo sarà la distruzione di tutto il lavoro che si è fatto in questi anni per il “Made in” che ha cercato di identificare, proteggere e valorizzare i prodotti nostrani; nel Ceta verranno approvate pochissime indicazioni geografiche (IG), su 811 prodotti solo 41! I prodotti che sono rimasti fuori da questo nuovo elenco non avranno nemmeno la possibilità di rientrarvi nel futuro, perché l’aggiornamento dell’elenco sarà ammesso solo per sottrazione.
Gli interessi economici delle multinazionali avranno così la facoltà di produrre prodotti a bassissimi prezzi, non dovendo sottostare a tutte una serie di normative che finora proteggevano il consumatore, obbligando il produttore a rispettare dei limiti sulla qualità, dall’altra le etichette daranno sempre meno la possibilità al consumatore di conoscere il prodotto e di fare degli acquisti consapevoli, trovando, a esempio, sugli scaffali, un prosciutto canadese denominato “Parma”.
Il 21 settembre è ormai prossimo e vedremo come questa lotta tra lobby e associazioni continuerà.
Cristiana Bianchi