Guglielminetti al Rodaviva. “Vi spiego cosa significa essere bassisti”
È settembre e il Rodaviva di Cava de’ Tirreni (Sa), dopo la breve pausa estiva, si trasforma nuovamente in un laboratorio dei desideri, dove convergono musica, libri, teatro, gastronomia, piacere della condivisione, scoperta di talenti e ritrovo di grandi personaggi del panorama culturale italiano, grazie alla guida artistica di Sandra Ruggiero. Ed è qui che Guido Guglielminetti, produttore e bassista di Francesco De Gregori, ha presentato il suo libro, “Essere basso… Piccole storie di musica” (pubblicato per L’ArgoLibro). Il musicista si mette a nudo e pone in fila una serie di capitoli densi di ricordi, storie, incontri, episodi dietro le quinte, tracciando un percorso artistico di quaranta anni. Collaboratore di interpreti come Tozzi, Grechi, Dalla, Martini, Oxa, Guglielminetti spiega, con ironia, il mestiere di musicista, ieri e oggi».
Perché ha deciso di pubblicare questo libro?
«Ho raggiunto quella maturità per cui erano i tempi giusti per fare questa cosa. Fino a qualche anno fa, non avrei avuto la volontà di pubblicare. Effettivamente, mi sono lasciato convincere. Non pensavo potesse interessare a qualcuno, sono il più sorpreso di tutti. È una lunga carrellata di ricordi, uno spaccato della storia musicale. Ho avuto la fortuna di vivere il periodo della musica italiana, e non solo, più importante in assoluto fino a ora. Un periodo di rivoluzione totale».
Com’è cambiato l’approccio alla musica da parte dei giovani musicisti?
«Intanto, la cosa più evidente è che, da almeno due generazioni, non c’è più niente di nuovo. Lo dimostra il fatto che i ragazzi facciano riferimento a cantautori che giovani non lo sono più. Ai nostri concerti vengono tre generazioni di persone. I ragazzi conoscono la discografia di De Gregori e Dalla, ma tutto questo mi fa riflettere sul futuro della musica. In questo momento non vedo nessuno che sia in grado di raccogliere quel testimone. Credo che quando c’è stata la grande rivoluzione, quella dei Beatles per intenderci, si pensasse fosse stato già detto tutto. In realtà non è così. Forse la musica, oggi, viene trattata in modo superficiale. Non c’è più la necessità di fare musica come succedeva a quelli della mia generazione. Oggi credono si possa ottenere il successo, diventare famosi. Sono quelli che chiamo i “calciatori della musica”. Fare musica tuttavia è altro, è necessità di espressione. Ho avuto la fortuna che sia diventato un lavoro per me. Ma ci sono arrivato per l’onestà con cui abbiamo sempre fatto questo mestiere. Voglio dire, il lavoro di studio e di perfezionamento è sempre stato incentrato sul cercare di migliorare la comunicazione, di riuscire a trasmettere sempre più emozioni, e non di cercare di piacere per ottenere successo. Oggi, a causa dei talent, sembra che quella sia la sola finalità dei giovani».
In questo caso, quanto pesa la presenza dei genitori?
«Purtroppo, vedo che quando i genitori non sono contrari, di contro sono favorevoli nel modo più sbagliato. Per questi ultimi, il proprio figlio è meraviglioso qualsiasi cosa faccia. Quello che suggerisco ai ragazzi è di capire da soli se hanno le capacità e il talento e, se sono convinti di fare un sacco di sacrifici, di conseguire la realizzazione della propria passione. Mio padre era contrario, non considerava un lavoro quello che facevo, ma non mi ha mai offerto alcuna alternativa. Vivevo quindi come fossi a metà e sono arrivato in tarda età che non sapevo se fossi un buffone o meno. Un giorno mia sorella mi disse che dovevo rendermi conto che, per nostro padre, non eravamo i figli che avrebbe voluto. Questa cosa mi ha aperto un mondo completamente nuovo. Da quel momento in poi, ho cambiato la mia vita. Ho iniziato a svoltare, è stata una sorta di epifania».
Lei ha iniziato negli anni ’60. Che ricordi ha di quel periodo?
«La musica era completamente diversa. Allora non c’erano le discoteche. Quando ti andava bene si suonava nelle sale da ballo, tutta la sera, per un periodo di 15 giorni. Suonavi qualsiasi tipo di canzone, dovevi avere un repertorio vastissimo. Avevo circa 16 anni. Andavo in giro, Viareggio, Rimini. Conoscevo molte persone. Poi è arrivato il momento di suonare con Patrick Samson. Facevamo un repertorio estremamente difficile. Era un gruppo coi fiati ed eseguivamo brani che acquistavamo negli Stati Uniti, dischi che in Italia non sono mai arrivati, sotto la direzione artistica del fratello di Patrick. Lì ho imparato il vero mestiere».
Cosa significa essere bassista?
«Essere bassista, come dico nel libro, significa esserlo di nascita, lo sei di estrazione, di indole. Ho avuto modo di lavorare con altri bassisti e ho capito che siamo tutti uguali. Abbiamo le stesse caratteristiche. Ogni musicista ha la sua personalità. Il bassista non può e non deve assolutamente bere. È l’unico punto fermo intorno al quale gira una intera orchestra. Se sbagli una nota, mandi in rovina tutto».
Tozzi, Battisti, Fossati. Tre mostri sacri. Come li ha incontrati?
Con Tozzi ho iniziato a suonare in parrocchia, eravamo vicini di casa, partecipavamo ai concorsi e assieme siamo andati a suonare con Patrick Samson. Poi siamo andati a fare il provino alla Numero Uno, la casa discografica di Lucio Battisti. Adriano Pappalardo cercava un gruppo con i fiati. Con Battisti ho partecipato al suo disco, “Il mio canto libero”. Avevo 19 anni e in quel periodo sembrava fosse tutto normale, non avevo la percezione dell’importanza di quello che stavo facendo. Quando abbiamo fatto “Il mio canto libero”, inoltre, neanche Lucio pensava che sarebbe stato un disco così importante. Con Fossati, “Poco prima dell’aurora” è stato un disco molto innovativo e coraggioso. Ci avventurammo in un genere musicale che ancora non si ascoltava in Italia. Essendo un disco imperniato sul basso fu una grande soddisfazione. Nei giorni passati, ho avuto modo di riascoltarlo, perché sto rifacendo alcune cose di quell’album e ti accorgi di come quegli arrangiamenti fossero molto all’avanguardia».
E De Gregori…?
«Con De Gregori c’è stata una continua evoluzione, senza rinnegare la matrice del passato.
Da parte di Francesco c’è sempre stata la volontà di intraprendere strade diverse. Poteva anche fermarsi con quel capolavoro che è “La donna cannone”. Invece, ha avuto e ha la capacità di cercare qualcosa di diverso. Paradossalmente, anche se la gente non lo pensa, De Gregori è molto più musicista che non scrittore di testi. Questi sono sempre a sevizio della musicalità. È chiaro che musica e testo devono incontrarsi. Ma è quasi sempre la musica a prevalere».
Lei ha fondato il progetto “Practice Recording Studio”. Cos’è?
«Quello che ho imparato, nel corso degli anni, l’ho appreso da chi aveva più esperienza di me. Poi ho scoperto di essere io il più vecchio e che avrei dovuto fare l’opposto. Credo intanto che ci siano ancora tanti talenti. Per cui, il corso che faccio serve ad aiutare i ragazzi a capire in cosa consiste il lavoro della scrittura e dell’arrangiamento di un pezzo. Alcuni pensano che scrivere una canzone sia un fatto romantico. Non è così, bisogna lavorare. Con la musica lavori sempre, quando vai a letto, quando stai con la tua donna, quando stai in vacanza. Devi accettare il fatto che non avrai mai il tempo da dedicare a qualcun altro».
Progetti futuri?
«Intanto, per ottobre, con De Gregori, faremo un tour in Europa e Stati Uniti. Invece fino al 1° ottobre, farò un tour nei locali con un giovane cantautore newyorkese, Levy Parham. Una sorta di blues elettrico. Basso, batteria e pedal e lui che suona la chitarra. Torniamo al contatto con il pubblico».
La canzone cui è più legato?
“Un’emozione da poco”, di cui ho composto la musica con testo di Fossati. È stata riproposta da Paola Turci, quest’anno, in una versione meravigliosa».
Davide Speranza