Dialogo con un Poeta: la scrittura secondo Alfonso Tramontano Guerritore
Poeta, scrittore, giornalista, performer teatrale, speaker radiofonico, attivista. Multiverso. Alfonso Tramontano Guerritore è un insieme di prospettive della sensibilità che si intersecano e producono storie. Che sia in mezzo alla strada, in un’aula di tribunale, sul palcoscenico o tra le pagine di uno dei suoi racconti, Guerritore scava nella sostanza delle cose e della carne, cerca l’umano e ne narra le nefandezze, le dolci fragilità, le illusorie speranze. Pochi giorni fa ha avviato il primo di una serie di incontri-reading che vedono protagonisti i suoi racconti, costruendo uno spettacolo dal titolo “Peccati-Cose da niente. Cose di strada riarrangiate, mischiate di dialetto e guagliunamma”.
Non è la prima volta che si cimenta con il teatro. Già in collaborazione con la Compagnia del Grimaldello, guidata dal regista e attore Antonio Grimaldi, ha scritto pièce e si è cimentato nell’azione performante. Sulle pagine del quotidiano “la Città” si occupa di cronaca giudiziaria, descrivendo il più delle volte un mondo fatto di politici corrotti, camorristi e poveri diavoli.
Autore dei blog “Lavocedeipesci” e “Guerriglia”, è riuscito a costruire nel tempo una voce sua. Una voce corale, dove gli occhi di chi racconta si confondono con la strada, i palazzi, la gente, le urla, le maleparole, gli spasmi sessuali, le morti orride, si confonde con la vita quotidiana di un territorio di un qualsiasi sud del mondo, l’Agro nocerino-sarnese, a cavallo tra Napoletano e Salernitano. Quella voce di Guerritore scompare, come il mangiafuoco di Pinocchio, dietro il teatrino che muove i fili. Restano i personaggi, umani, “mostri” o paesaggi che siano. Tutti a concorrere a un valicare la linea d’ombra, a metà tra Conra e Stephen King (qui non c’entra l’horror, ma l’orrido dell’esistenza quotidiana). Guerritore conosce bene il mondo che descrive, sono storie di vita, sprazzi assimilati nelle frenetiche corse in strada, nel fuoco degli eventi dove sangue e grida la fanno da padroni. Nessun localismo. La forza delle sue storie sta nel rendere universali le vite di certi ragazzi, come quelli delle borgate romane di Pasolini. Nascono così personaggi solidi. Il ragazzino e il mare dinanzi a lui, nel mezzo la sfida di un tuffo e gli occhi di una ragazza: un po’ come in “Brevi interviste con uomini schifosi” di David Foster Wallace. La guagliunamma di quartieri desolati che scavalcano le gerarchie della vita in un campetto di calcio, ai piedi di una ferrovia sgangherata. In questo percorso esplode quel passaggio dall’infanzia all’adolescenza o dall’adolescenza a qualcos’altro. È così che i racconti di Guerritore diventano rito, modifica, mutazione dell’animo e di relazione. Diventano un treno che passa, colpito con violenza dalle pietre.
Cosa significa per te scrivere?
«Esprimersi e fermare le cose che ti passano intorno, renderle concrete».
Nasce prima l’amore per la scrittura o il giornalismo?
«La scrittura è una sorta di seconda pelle, è nata prima, così come la lettura. Poi sono arrivato al giornalismo. La prima domanda fattami dal capo della redazione di allora [Cronache, ndr.] fu “che cosa ti piace di questo mestiere?”. Io risposi “scrivere”. Mi fu detto che non serviva a niente. Col giornalismo il lavoro punta sulle notizie. La scrittura è un accessorio. Il giornalismo ha a che fare col mondo e non tanto con la scrittura. Ma questo si capisce solo dopo. C’è una idea molto romantica del giornalismo che è quella del racconto, del reportage, ma è solo una piccola parte di questo mestiere».
Come fu questo primo impatto?
«Inizialmente rimasi stralunato. Mi ero mosso su spinta di amici e parenti, per cominciare a capire come funzionava un giornale. Mi piaceva leggerli, come oggi. C’è da dire, però, che un articolo giornalistico ha delle regole precise che impari col tempo, finché ti diventano automatiche. Le famose “5 W”».
Qual è la differenza nell’approccio tra scrittura narrativa e giornalismo?
«La scrittura narrativa ha tempi diversi, uno sguardo diverso, più libertà nella fase iniziale. Ha qualcosa di personale che segna in maniera più marcata il risultato. Per il giornalismo, c’è una realtà che ti richiama a sé, e quella realtà che ti chiama ha un compito ben preciso. Chi scrive e fa letteratura certo ha comunque una responsabilità, quella di dare una chiave di lettura, magari meno puntata sul quotidiano. Ma non ci credo a una scrittura priva di politica. Anche un poeta che guarda la luna ha in sé un messaggio forte».
Dunque l’una condiziona l’altro?
«Dipende sempre dal rapporto giornalismo-letteratura. Il giornalismo mi ha dato una grande chiave, quella di tenere ben presente una urgenza, una necessità. Il giornalismo è lì che ti richiama quotidianamente. Anche all’esercizio. Letteratura e giornalismo si guardano da una certa distanza. Il giornalismo mi ha insegnato l’esercizio, la pratica della scrittura quotidiana, che è una cosa in comune con la letteratura. Riempi pagine e pagine. L’idea, poi, viene fuori. Ma il lavoro grosso è la rilettura, lo sfrondare. Così arrivi a una certa essenza e a quello che volevi davvero esprimere. Un lavoro che si fa con la pietra grezza. Hai in testa qualcosa ma devi togliere quello che non serve. Anche la poesia non è semplice da scrivere».
Ecco, poesia. Qual è il processo creativo e artigianale del verso?
«C’è sempre di mezzo la parola. Il tipo di lavoro è uguale. La poesia non nasce da sé e non nasce senza una lavorazione. Credi che la poesia fluisca come l’acqua corrente o nasca come un tramonto. Ma come per un racconto o un articolo, butti appunti, conservi immagini, parole. Ci torni, un lavoro di cesello, di lima. Magari puoi accontentarti di un verso semplice perché hai un’urgenza ma, se ci lavori, quel verso troverà uno spazio più assoluto. Lo schizzo di un artigiano può suggestionarti, come un tramonto, una parete rocciosa. Il modo di fare urticante di una persona. L’ostilità di un paesaggio moderno. Anche il traffico. Tante volte mi ispira, perché è assurdo immaginare tutte queste persone compresse, con tutti i loro pensieri e desideri, in quelle scatole. Oppure osservare le persone dal tavolo di un bar o da un balcone. La cosa fondamentale resta la capacità di dare una tua impronta».
Quali sono i tuoi punti di riferimento per la narrativa e la poesia?
«Leopardi. Poi c’è l’americano Charles Simic, Rimbaud. Soprattutto Edgar Allan Poe. Ha scritto poche poesie. Ma crea una serie di colori e suggestioni che hanno a che fare con l’interiorità, la psiche, quello che ci ribolle dentro. Sulla narrativa, mi piacerebbe arrivare alla perfezione dei racconti di Lovecraft. In questo periodo mi seduce Hemingway. Amo anche quelli che scrivono dei territori dove sono passato o vivo, come Saviano oppure Malaparte con “La Pelle”. Uno degli ultimi libri letti è stato quello di Fabrizia Remondino, “Althénopis”. In estate ho letto “Una questione privata” di Fenoglio. Ma potrei consigliare anche un grande libro di Gesualdo Bufalino, “Diceria dell’untore”, ambientato in un sanatorio».
I territori, come influiscono sullo scrivere e sulla tua poetica?
«In maniera assoluta, totale e necessaria. Mi rifaccio a un esempio. Parlo dello sguardo. Avrò avuto 10 anni, giocavamo a pallone, scuole medie, nei parchi residenziali o nei quartieri. Si mischiavano ragazzi di strada, quelli più timidi, figli di papà. Una sorta di democrazia del calcio. Un ragazzo mi ferma e mi dice “Tu quando mi vedi in mezzo alla via, devi calare la testa e non mi devi salutare”. Dopo tempo l’ho rivisto e me lo ha ripetuto. Ho capito che questa cosa era parte di un mondo e se contravvenivi a quella regola dovevi importi con la violenza, altrimenti stavi per conto tuo. Questa cosa l’ho rivista cambiata tempo dopo, dove c’era un marciapiedi per quelli che andavano al liceo e di fronte c’erano quelli di strada. Una separazione naturale di quartiere. Ogni tanto con un pretesto succedevano litigi. L’evoluzione di questi episodi sfocia in accoltellamenti, risse, pistolettate. Questo ti porta a usare quel linguaggio o un altro. Chissà, un libro nelle mani di uno di questi come funzionerebbe, alle volte è una questione di opportunità».
Hai trovato un’altra forma di espressione. Il reading.
«Sì. Quando leggi e scrivi, il più delle volte c’è un silenzio. Quando dai voce alla scrittura, e c’entra il teatro, inizi ad avere a che fare con qualcosa che diventa altro, più concreto di ciò che popola i libri. Le parole sono quelle, ma suonano. La dimensione si apre. Stai riempiendo quel silenzio. Il tuo patto non è con chi legge, ma con chi ascolta. Devi tener conto del ritmo, dell’attenzione delle persone. La mia scrittura è cambiata col teatro».
I racconti in scena?
«Il primo si intitolava “Lucciole”, che ha qualcosa di pasoliniano, era dedicato a Pasolini. Trattava il mondo della prostituzione. Gli altri hanno un forte legame con l’adolescenza, l’infanzia, la libertà. “I peccati, cose che non si fanno”, storie legate al territorio ma soprattutto al nostro territorio interiore. Ogni storia parla di un limite con cui si confrontano i protagonisti. Hanno a che fare con la formazione di ciascuno, la parte che ci portiamo sempre con noi, anche se relegata a qualcosa di lontano, a quando eravamo bambini. Sono prove, i peccati. Fatti per fare, per guardare che succede. Storie che non si capisce dov’è il male e dov’è il bene. La prospettiva è di fare un tour e di lavorarci ancora, di costruire una serie di episodi legati ai peccati».
Davide Speranza