“FRATELLI NEMICI. CLOSE ENNEMIES”.
In una periferia di Francia, Driss e Manuel, un tempo amici strettissimi, si fronteggiano su rive opposte: Manuel, lo spaccio, l’altro è della narcotici. Saranno costretti a riconfrontarsi. Nella letteratura e nel cinema francese c’è un particolare, e molto tipico, genere narrativo che è chiamato “Polar”, parola proveniente dalla crasi di poliziesco e noir, in cui gli aspetti introspettivi sui personaggi accompagnano gli andamenti narrativi anche d’azione, ne sono il controcanto. Non mancano sottolineature di carattere sentimentale e malinconico. In realtà il Polar è figlio più o meno diretto della grande stagione del poliziesco americano, tra cinema e letteratura, degli anni 40 e 50: con grandi scrittori come Dashiell Hammett, Raymond Chandler, Jonathan Latimer, Ross McDonald e tanti epigoni successivi; e registi, alcuni dei quali veri e propri Maestri, come Howard Hawks, Anthony Mann, John Huston, Nicholas Ray, Fritz Lang (la sua carriera americana) e tanti altri. Rappresentano un genere robusto, ben radicato nel terreno della società; e che ancora oggi produce i suoi frutti. In Francia, poi, ha espresso un autentico genio: Jean-Pierre Melville (ricordo “Frank Costello faccia d’angelo”,67; con un indimenticato Alain Délon). In Italia, in quegli anni, tranne lo scrittore Giorgio Scerbanenco e il cinema “poliziottesco” degli anni 70, si è avuto ben poco. Anche se il regista Ferdinando Di Leo, autore di alcuni dei più riusciti film del genere, è oggetto oggi della riconsiderazione critica, grazie anche alla “riscoperta” post mortem di Quentin Tarantino. Ed è avvenuto con deplorevole e ingiustificato ritardo. Il presente è un film (FRA-BELG, 18) raro. Perché senza presunzioni autorali, ma con convinta e concentrata determinazione, si situa con forza e nell’ambito di questo specifico genere. Non inganna lo spettatore: noi sappiamo perfettamente dove vuole andare a parare. Ma lo fa anche con originalità. Ovvero muovendosi con disinvolta e puntuale chiarezza nei meccanismi e le sintassi del genere: ma con cui costruisce altresì spazi di analisi e motivazioni dei personaggi; e anzi li dilata, quando sono necessari a dare ulteriori sfumature. Come nei rapporti di Driss con gli anziani genitori: una pagina di intensa, quanto serrata commozione. Lo sguardo del regista, il francese David Oelhoffen che l’ha anche sceneggiato insieme a Jeanne Aptekman, concentra la sua attenzione sulle banlieues, quelle abitate da maghrebini, ormai francesi da più generazioni, ma che mantengono i loro legami con i paesi di provenienza. Spesso anche per ragioni criminali. In particolare quasi tutti i personaggi del film appartengono al milieu, cioè ambienti malavitosi, dai quali è difficile distaccarsi, perché il limite tra appartenenza etnica, ai vari clan familiari, di pura complicità e interessi, è molto tenue. Driss l’ha fatto isolandosi dagli amici, ma anche dalla famiglia. Su queste dialettiche il regista ha costruito la tenuta narrativa dell’adesione al genere. Ed è proprio questo personaggio ricco di sfaccettature, ad essere il nostro Virgilio/Caronte. Da una parte egli, nell’organizzare un’indagine contro un boss della droga, ri/intercetta tutti i suoi passati; dall’altra, proprio questo suo fare sarà foriero di dissoluzione drammatica degli apparenti equilibri, addirittura con parvenze di moralismo patriarcale, e quindi delle numerose esistenze coinvolte, che, bene o male, si erano realizzati. Invece è la logica del crimine feroce, vorace e spietato che prevale: non c’è rispetto per la tradizione degli antichi valori che tenga o posa farvi argine. Presenza molto forte è l’antagonista/amico di Driss, l’attore belga, ma star internazionale, Matthias Schoenaerts. Non c’è compiacimento cinefilo pippeur, nel mettere in continuità queste analisi con gli scoppi di violenza ad essi connessi. Che ci sono; e risultano efficaci e d’impatto drammatico Ma un procedere deciso della sceneggiatura in avanti e a maglio. Non vi sono particolari o compiaciute leccosità cromatiche: il modo di inquadrare del direttore della foto, il francese Guillaume Deffontaines, esperto artista da tempo operante, e con successo, nel cinema francese e non solo, è asciutto e molto realistico, pur essendo attento all’uso degli spazi e alle sfumature dei diversi ambienti. Così anche la montatrice Anne-Sophie Bion (peraltro Nominata agli Oscar 12 per “The Artist”) ha svolto un lavoro di qualità, per quanto in apparente sottotono. Presentato in concorso a Venezia 18, quindi scelto e apprezzato da esperti, non ebbe il dovuto riscontro premiale.
Francesco Capozzi