La Meglio Gioventù. Io, solo, contro la camorra: la storia di un imprenditore

Scriveva, Giovanni Falcone, in “Cose di Cosa Nostra”: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno»

È esattamente quello che potrebbe aver pensato l’imprenditore, oggi 40enne, Luigi Leonardi. All’inizio degli Anni Zero, Luigi è un giovane con la voglia di crescere nel campo del lighting design. Ha il lavoro nel sangue e macina un successo dietro l’altro. Apre quattro aziende: Leo Lamp, Gi-Max, Luci Alternative e Lucignolo Illuminazione. Già nel 1997 fa capolino nel mondo dell’imprenditoria a Melito. Fino al 2002, riesce a mettere in moto due fabbriche e cinque negozi, ottenendo un finanziamento agevolato con la legge 488: si parla di cinque miliardi delle vecchie lire. Un boccone succulento per gli squali che gli girano intorno. E infatti non passa molto tempo che i pescecani della camorra iniziano a seguire la scia. Il bilancio sarà: due processi, cinque clan raggiunti da denuncia, interrogazioni parlamentari, attentati, incendi, abbandono da parte della famiglia e dello Stato. Una vita devastata, che ha visto l’ultima beffa nel suo mancato inserimento all’interno del programma di protezione speciale e nella negazione della scorta.

Poi, arriva il programma de “Le Iene”. Luigi denuncia, in tv, il silenzio dello Stato e dopo due giorni gli accordano la protezione. Nel paese dei balocchi accade anche questo. Accade che un bambino nasca con la convinzione che denunciare è sbagliato. Accade che i peggiori delinquenti possano girare in libertà e farti schiantare con la tua macchina contro un muro, se non paghi. Accade che l’unico strumento di difesa si riveli quel mostro mangiatutto, che è la televisione. Questo è accaduto a Luigi, diventato adesso simbolo di una Nazione che vuole rinascere, a dispetto di una Nazione in ginocchio, nuda, omertosa, vessata dall’ombra di una dittatura onnipresente, come la peggiore delle “Italie fasciste”. Se lo Stato siamo noi, anche la mafia siamo noi quando non denunciamo, quando voltiamo la testa, quando neanche dinanzi alla storia di Luigi, prima di mettere la testa sul cuscino, la notte, volgiamo il pensiero a quello che sarà il futuro dei giovani di questa terra.

Come nasce il tuo percorso imprenditoriale?

«Nasce nel 1997, poco più che 18enne. All’epoca studiavo Economia e Commercio alla Federico II di Napoli e dentro sentivo già di voler fare qualcosa di mio. Chiesi un prestito di 60 milioni di lire in banca e con quello misi su la prima fabbrichetta, dove producevo, e presi in fitto un negozio a Melito, dove vendevo».

Quando hai iniziato a ricevere le prime visite della camorra?

«Negozio di San Vitaliano, clan Russo, 3 persone».

Quanto chiedevano?

«500 euro al mese per ogni saracinesca – considera che ne avevo 5 – e un bonus a Pasqua, Ferragosto e Natale di 1500 euro».

Quali minacce hai subito e perché?

«Mi hanno sbattuto per aria con l’auto, perché non volevo sottostare al clan di Nola. Poi le altre – intimidazioni a mano armata, botte, sequestro di persona – le ho subite nell’arco dei 16 anni di vessazioni e le subivo perché le dinamiche di questi falliti sono solo queste».

Quando sei stato costretto a pagare, cosa hai pensato?

«Pagare è stata, in assoluto, una delle umiliazione più grandi della mia vita. Pagare è una sconfitta per chi, come me, ha messo sempre il lavoro al primo posto nella propria vita. Pagare per tanto tempo, ha significato, per me, sparire come uomo».

Lo Stato in che modo ti ha aiutato?

«Lo Stato, tutt’ora, non mi ha aiutato. Lo Stato è, con enorme delusione, il mio assassino finale. La prefettura di Caserta, per esempio – nel video de “Le Iene” è emblematico il trattamento – mi ha bocciato un risarcimento danni per un incendio che anche il pm ha stabilito di natura dolosa e riconducibile ai 5 clan che ho denunciato. Ma il burocrate di turno, tale dottor Granata, ha ritenuto, con una sua prevenuta e personale considerazione nello stilare le relazioni per Roma, che io non avessi diritto. Applicando in modo becero una serie di bassezze che mi hanno legato mani e piedi, anche nel ricorso al Tar che non ho potuto fare. Alla prefettura di Caserta ho fatto un esposto, andato anche sull’“Ansa”, per abuso d’atti d’ufficio e, a oggi, sia il ministero degli Interni che la Prefettura continuano a negarmi un appuntamento. Questo che messaggio è se non, “lo Stato non vuole che denunciate?”. Ma la domanda successiva è a chi fa comodo che un onesto cittadino non denunci?».

Quando hai deciso di denunciare?

«Dopo l’ultima goccia, che si è concretizzata in un sequestro di persona a opera di tale Peppe detto “‘o chiatt’”, capo piazza di spaccio delle case celesti di Secondigliano. Dopo essere stato sequestrato per circa 24 ore, sono uscito, e il giorno dopo ho deciso di affidarmi a una nota associazione antimafia, che mi ha seguito fino a un certo punto nella denuncia. Ma questa delle associazioni è un’altra triste realtà che preferisco non ricordare».

Quando è iniziato il processo?

«Il primo, cominciato nel 2004, aveva 174 imputati, clan Russo di Nola al completo, magnifica operazione di indagine dei carabinieri di Castello di Cisterna, in capo al tenente colonnello Cagnazzo. Si è svolto nell’aula bunker Ticino I di Poggioreale. Sembrava di assistere a un film. Ogni delinquente aveva diritto a 2 avvocati. In quell’aula eravamo circa 500 persone. Il processo è durato tanto, circa 5 anni, durante i quali ho subito minacce, percosse e infine un incendio, ma sono andato avanti nonostante tutto, e la cassazione di quei 174, ne ha passati in giudicato, 81, distribuendo 790 anni di galera».

Adesso hai una scorta?

«Ho una scorta, ma è un bavaglio che mi ha affibbiato la prefettura di Caserta, dopo la gloriosa figura che ha fatto con l’intervento de “Le Iene”. Queste gli hanno ricordato che, dalla richiesta di intervento del pm all’attuazione delle misure speciali di protezione, hanno fatto passare 5 mesi».

Cos’è per te Stato?

«Lo Stato per me, rappresenta ancora il buon padre di famiglia, ma purtroppo, a oggi, è tenuto sotto sequestro da persone improbabili, che non hanno altro in testa che interessi e personalismi. Purtroppo le persone, in questa situazione, legano ancor di più l’accezione fallimentare alla figura dello Stato».

Cos’è “dignità”?

«Una radice profonda, che mi ha fatto fare sempre la scelta giusta».

Hai ripreso a lavorare in questi anni? E adesso?

«Ho ripreso a lavorare più volte, ma in questo paese, chi fa scelte come la mia, viene emarginato, senza capire che dovrei essere la regola, non l’eccezione. A oggi lavoro, saltuariamente, ma non mi fermo».

Ai giovani imprenditori onesti del Sud, cosa pensi di dire?

«Di avere coraggio nell’investire in questo paese, e fare rete. Le persone perbene sono sempre in numero maggiore, quel che manca è il coraggio».

Cos’è per te il paese Italia?

«Scontato a dirsi, ma è il paese più bello del mondo. Per colpa nostra, di tutti noi, a oggi, è ricoverato in un ospedale, su una barella, con un tumore enorme che si chiama mafia. E fare la differenza sta solo a noi».

Davide Speranza

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