La Meglio Gioventù di Irene Maiorino: Gomorra, il male d’Italia, la cultura, l’attore nella vita

Si è fatto un gran parlare del ritorno di “Gomorra”, uno dei fenomeni televisivi più incisivi nella cultura di massa degli ultimi anni. C’è chi ha accusato la serie di incarnare il “male” perché mancherebbe di mettere in luce la speranza di un paese, indicando la strada dell’emulazione. Ma siamo anche in Italia, paese delle invidie. Non si è fatto attendere il coro di voci sdegnate – soprattutto quelle di alcuni scrittori e intellettuali – contro Roberto Saviano, colpevole di far soldi su un prodotto filmico che infanga le nostre terre. Eppure, lo stesso potrebbe essere imputato a film come “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, “Scarface” (sia nella versione di Howard Hawks che in quella di Brian De Palma), “Quei Bravi Ragazzi” di Martin Scorsese, “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Il popolo perbenista dello Stivale teme il male, forse perché, nel proprio inconscio, rifiuta l’effetto specchio che inevitabilmente torna a galla. Mi viene da pensare al concetto di “male” di cui è permeato l’ultimo scandaloso lavoro di Pier Paolo Pasolini, “Salò o le 120 giornate di Sodoma” dove la corruzione dello Stato, l’abbrutimento del potere, la volgarità del fascismo diventavano strumenti di svuotamento dell’umano fino a renderlo “oggetto”. «Ora, degli italiani piccolo-borghesi si sentono tranquilli davanti a ogni forma di scandalo, se questo scandalo ha dietro una qualsiasi forma di opinione pubblica o di potere; perché essi riconoscono subito, in tale scandalo, una possibilità di istituzionalizzazione, e, con questa possibilità, essi fraternizzano», scriveva Pasolini. Tornando a “Gomorra”, a difenderne la qualità morale e culturale è il magistrato Ilda Bocassini che, sulle pagine di “la Repubblica”, ha scritto: «Anche la serie di “Gomorra” ci mette in guardia contro il male, ci spinge contro un muro, non ci fornisce alibi, ci costringe a guardarci dentro. Saviano ha capito che solo partendo dal male assoluto, dall’assenza di bene, può nascere il motivo autentico di rinnovamento». Insomma, lo stimolo a riscoprire la forza, la determinazione a ricostruirlo, questo nostro paese devastato. A essere su questa linea filosofica è una delle attrici della serie, la giovane Irene Maiorino, che in “Gomorra 2” ricopre il ruolo di Teresa, moglie del boss Rosario O’ nano (interpretato da Lino Musella). Originaria di Cava de’ Tirreni, Irene si divide tra teatro e cinema: laureata al Dams e approdata all’Accademia Bracco, era già stata tra i protagonisti della fiction di Canale 5 “Baciati dall’amore”. La passione per la recitazione l’ha indotta a lasciare la sua città appena 18enne. Ci racconta di “Gomorra”, ma anche della difficoltà di fare l’attore in Italia, della mancanza di sovvenzioni in campo culturale, dell’importanza del confronto e della formazione, soprattutto della necessità di coltivare sogni. Dalle fresche parole di Irene, il gioco del rifiuto si infrange ed emerge l’effetto specchio. Davanti all’immagine riflessa, non sarà una serie televisiva a suggellare il male di un Paese, ma le azioni concrete dei suoi abitanti.

Irene, cos’è per te recitare?

«Un mestiere, qualcosa che presuppone una formazione, una retribuzione che in Italia, spesso, soprattutto agli inizi, è un concetto ancora da difendere, quando poi dovrebbe essere legittimo. Si scambia il mestiere della recitazione con un discorso di popolarità. Sono cose diverse, puoi essere un bravissimo attore e non esser ancora popolare. Mi è capitato all’inizio che mi proponessero delle cose, dicendo che poi avrebbero avuto visibilità, per cui non mi avrebbero pagata. Invece la cosa principale è la dignità, in ogni tipo di lavoro. La retribuzione anche minima è una forma di rispetto».

Come hai iniziato?

«Tutto nasce da un carattere forte. C’è un grande lavoro su se stessi. Un incontro casuale in un pomeriggio a scuola. Avevo 16 anni. Da lì ho avuto la folgorazione, l’intuizione, l’istinto di buttarmi dentro questo canale. Che poteva diventare un lavoro, l’ho capito nel tempo. Bisogna fare delle rinunce, sbagliare, stare lontani da casa».

Il tuo rapporto con il lavoro di “Gomorra” e le polemiche che ne sono nate?

«Sono molto grata a “Gomorra” e ringrazio Claudio Giovannesi e Stefano Sollima per avermi scelto, dandomi questa occasione. Un inizio, un punto di partenza. Voglio essere fiduciosa come mai lo sono stata nella mia vita, perché bisogna imparare anche a godere delle cose belle. Sulle polemiche, posso dire che un conto è vederlo da fuori e un conto è starci dentro. La forza di “Gomorra” è di essere un prodotto compatto, nonostante le varie linee drammaturgiche. Sollima ha una grande responsabilità che è quella di lasciare le diverse storie nelle mani dei registi e raccontare tutto con coerenza, in modo da non tradire le aspettative. Il realismo è spesso motivo di polemiche, anche sterili. Non c’è alcun tipo di esaltazione di questi personaggi. Il contesto di riferimento è molto delicato, ci troviamo nella sfera della malavita, dell’antistato. Ma per me è implicita e molto forte la dichiarazione di intenti del prodotto. Il problema è come si decide di veicolarlo. Su questo, mi sento di difenderlo. Molte persone non vogliono che si raccontino determinate cose».

Qual è la tua esperienza nel teatro indipendente?

«Il teatro indipendente è forse il teatro in cui mi sono mossa di più. Ho una collega, Maria Luisa Usai, con cui ho cominciato a lavorare. Abbiamo fatto uno spettacolo “Madame Misère”, che abbiamo portato anche a Roma. Lei è una brava drammaturga e spesso creiamo dei lavori insieme. Da spettatrice, ho grande esperienza di teatro indipendente. Vado spesso a teatro, passando dalla cantina romana fino alle anteprime dei grandi teatri».

Quali sono i lavori cui sei più legata?

«In questo momento è “Gomorra”. Il personaggio di Teresa è arrivato in un momento difficile della mia vita, un personaggio che ho amato molto. Inizialmente ho sostenuto i provini per Patrizia. Poi è arrivata la telefonata che mi proponeva un altro ruolo, quello di Teresa. È stato amore a prima vista per entrambe. Si pensa che sia l’attore a regalare qualcosa al personaggio ma è anche l’inverso. Quando i personaggi sono scritti bene, la scena ti può aiutare a intuirne i colori. Teresa in quel momento della mia vita mi parlava di più. Alla fine ci si fa strumento per raccontare una vita e una storia. Teresa ha come unica arma il cuore, probabilmente senza neanche saperlo. Teresa è una perla, apre a un immaginario familiare ancora non indagato nella serie. Lei ci dà la possibilità di entrare nella vita intima del boss».

Ci sono difficoltà a cominciare, in una città di provincia come Cava de’ Tirreni?

«Le difficoltà ci sono. Il problema non riguarda le opportunità ma come esse vengono sfruttate. Quando ero al liceo, ci si accontentava abbastanza. Cava non è un paese ma una cittadina, quindi ha delle possibilità e potrebbe fare ancora di più. Invece spesso si resta tranquilli sul fatto che sia una cittadina gradevole, a pochi passi dal mare. Negli anni però le cose stanno cambiando, ci sono giovani che si danno da fare. La difficoltà è quella di dover ammettere che bisogna andarsene, almeno per fare un paragone e un confronto. La provincia inevitabilmente è più piccola e ti protegge. Bisogna confrontarsi a più livelli e uscire fuori di casa».

Teatro e cultura, in Italia, sono davvero in crisi?

«Mi viene in mente il popolo francese, che a differenza degli italiani è davvero compatto. Potrei citare una protesta, quella delle madri che, dopo l’aumento di qualche centesimo del latte, scesero in piazza. Noi siamo molto bravi nella retorica, a scrivere, e questo si collega anche alle polemiche su “Gomorra”. C’è un gran parlare ma alla fine si sposta sempre l’attenzione. Invece dovremmo mettere l’attenzione sul fatto che le sovvenzioni sono poche, che ci sono pochi stimoli per i giovani, per cui è difficile avere un progetto finanziato. Nella cultura non si investe come si potrebbe, e come invece si fa nelle infrastrutture inutili. E il cinema? Il cinema si trova un po’ meno in crisi, grazie a sovvenzioni private e alle diverse produzioni che possono collaborare. Sul cinema c’è stato un problema di storia e di storie fino a 7, 8 anni fa. C’era molto cinema commerciale ma adesso stano tornando storie forti sull’onda del realismo. Siamo stanchi di raccontarci i lieti fine. Si va in cerca di pugni nello stomaco, come il “Fiore” di Giovannesi che è poi il regista con cui ho lavorato in “Gomorra”. Quali consigli a un giovane attore? Semplicemente studiare e formarsi. Quello dell’attore è un lavoro, un mestiere. Che tu sia fotogenico è un’aggiunta ma hai bisogno della formazione. Se poi si aggiungono dedizione, determinazione e talento, tutti riusciamo in qualcosa sicuramente. Mai fare l’errore di pensare che ci si possa improvvisare attori».

Gli diresti di andare via dall’Italia?

«L’idea di andar via dall’Italia? Perché no? Tanto si fa sempre in tempo a tornare. L’azione di andare fuori e rompere con la routine, aprire gli occhi su qualcosa che è diverso e pericoloso, ti mette in una posizione di ascolto e ricettività fondamentale per questo lavoro».

Cos’è per te La Meglio Gioventù?

«Chi non si dà per vinto, chi coltiva passioni e sogni e, magari, per poter continuare ha bisogno di dover fare altri mestieri durante il giorno. Come me, che fino ad alcuni mesi fa o prima delle riprese di “Gomorra” continuavo ad alternare periodi in cui facevo l’attrice, dividendomi tra teatro e registrazioni per fiction, e altri periodi in cui facevo lavori da baby sitter o nei locali. Il prodotto finale è un arrivo, in realtà dietro c’è tutto un lavoro di attesa, formazione, provini, ricerca, fallimenti che va sostenuto, economicamente e psicologicamente, con una vita che ha a che fare più con qualcosa di reale, di concreto, di immediato».

Davide Speranza

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