Pensieri Contemporanei: intervista a Mimmo Oliva
Partendo dai dati sull’astensionismo elettorale, e in particolare sul crollo diffuso del numero dei votanti tra 1° e 2° turno delle ultime consultazioni, si può affermare che la partecipazione politica “affascina” sempre meno?
«La Politica ha un suo fascino da sempre. È questa politica che affascina sempre meno. Sicuramente, c’è di vero che la forma partito non affascina più: non c’è partecipazione, chiarezza, coerenza…potremmo continuare all’infinito. I partiti tradizionali sono stati svuotati. Quelli di oggi sono circoli di esclusivi – se va bene – o comitati d’affari. In questi giorni il messaggio arriva – finalmente – da qualcuno al vertice: il “potere per il potere” è una rappresentazione plastica di quanto accade, ma da troppo… L’astensionismo è anche conseguenza di questo. Come ho già avuto modo di sottolineare più volte, i partiti sono fondamentali per questa democrazia. Ma non quelli di oggi, però! Domande interessanti, spesso non prese sufficientemente in considerazione sono: Quanto contano gli uomini e le donne in un partito? E che rapporto hanno “gli eletti” con la “base”? O contano solo le gerarchie? E fondamentalmente, qual è il beneficio per la collettività – che sostiene comunque dei costi – nell’avere questo o quel partito? … Il fatto è che, senza risposte convincenti, il partito diventa un sistema elettorale punto e basta. Bisogna che si rifondino i partiti, ma il focus dovrebbe essere sulla la trasparenza del rapporto tra la base e l’eletto, tra il partito e il suo territorio. Chi riuscirà a interpretare prima e meglio questo punto, sarà il riferimento per molti».
Nell’immaginario collettivo si consolida la convinzione che i partiti siano concretamente in mano a grandi elettori. Secondo lei è vero, perché e chi sono?
«È più di un’impressione… ma i notabili – o i califfi, mi si lasci passare il termine – nei partiti, ci sono sempre stati. Ma erano partiti “conservatori”. Oggi, invece, l’impressione che si ha è che siano dappertutto o quasi. I motivi sono diversi, ma tendenzialmente questo appesantisce il sistema politico e, a differenza di quanto accadeva in passato, gli fa perdere credibilità. Proviamo a iscriverci a un partito, a esempio: La prima domanda che ci sentiremo fare sarà “chi è il tuo referente?”. E se vuoi contribuire senza essere un portatore di pacchi di tessere, praticamente, non sei proprio considerato, sprechi energie e quindi “sei sprecato”. E in questo particolare momento storico è intollerabile, è una situazione completamente distante dalla realtà. Grandi elettori. L’impressione è che non siano sempre gli stessi, ma è un cambiamento solo apparente, direi gattopardesco».
A suo giudizio, cos’è e quanto conta la credibilità in politica?
«La credibilità conta sempre. Ma pesa anche: la politica è fatta di decisioni e decisori, e in alcuni casi i decisori “pesano” negativamente la credibilità. Questo comportamento è umano, e in quanto tale va corretto con regole che tendano al miglioramento della classe dirigente. Ma questo non accade quasi mai spontaneamente. Siamo passati da una grande speranza di cambiamento a una delusione; a oggi necessitiamo di una svolta vera, ma è l’intero sistema che ormai sta andando in tilt: La delegittimazione è la fase cronica della mancanza di credibilità. Quello che c’è dopo, è territorio inesplorato».
La politica di governo sembra annaspare nel tentativo di dare risposte concrete ai bisogni reali dei cittadini. I numeri disegnano un paese frammentato e al collasso. Qual è il senso di “partito liquido” lanciato da Renzi in una fase in cui l’offerta politica non riesce a incontrare la domanda?
«La politica è stata dal dopoguerra sempre in contatto con la società. Rapporti complessi, ma di cui oggi c’è solo un vago ricordo. Questo ha funzionato fin quando strade alternative non si sono aperte ed hanno reso possibili altri percorsi di impegno o emancipazione. La politica è rimasta indietro, preservando più la propria nomenclatura che il rapporto con la realtà che si apriva a scenari sempre più nuovi. Questo scollamento è stato percepito da molti, che in tempi e modi diversi ne hanno preso atto. Il Sud non ha più identità collettiva. Qualcuno ne parla?!? È palese che esso sia ormai un territorio avvilito, che si sente abbandonato: basta camminare per le strade delle proprie città e ci si rende conto che non si ha più alcuna voglia di “agitarsi”, non c’è più decoro… Chi non ha lavoro non lo cerca nemmeno più, e il paradosso maggiore è che tutto questo sembra “normale”. L’impressione è di essere – ovunque vai – in una periferia di un centro lontano… forse una periferia marziana! Quanto poi al partito liquido, si dovrebbe precisare bene cosa s’intende. In questo momento trasparenza e democraticità sono le richieste più forti che vengono da una parte sempre maggiore di elettorato. Il resto, alla lunga, è visto solo come fumo negli occhi».
Se è vero che la fiducia nelle istituzioni abbia toccato il fondo a quali rischi si espone il Paese?
«I partiti – e le istituzioni in genere – nascono in un contesto storico preciso e si adeguano ai mutamenti della società. O quantomeno dovrebbero. La distanza relativa tra queste due categorie dipende dal momento storico. Ma quando divergono, iniziano a esserci problemi. Bisogna assolutamente prendere atto del momento particolare, ci vuole un’immediata assunzione di responsabilità. Ma di chi?!? Di ciascuno, si potrebbe obiettare. Ma non è una risposta che mi convince. L’assunzione di responsabilità riguarda tutti i segmenti che compongono una società, ma il rischio è che chi detiene in qualche modo una forma di potere nel nostro Paese – a tutti i livelli, e non mi riferisco solo alla politica – sia il primo a chiamarsi fuori dal nuovo corso. Che è già in atto, solo in fase troppo latente per essere percepita dai più».
Gli sbarramenti elettorali privano la rappresentanza parlamentare a molti milioni di votanti. Come si coniuga questo diritto negato con la necessita di governare? E, secondo lei, esiste una modalità alternativa?
«Oggi chi rappresenta chi? Non è una provocazione: nel momento in cui alcuni, avendo deciso che bisognava concentrarsi in lotte di vertice o di corrente, hanno prodotto quasi ovunque frammentazione, servilismo, omertà, mediocrità e apatia. Chi stava fuori o rifiutava questo contesto veniva emarginato, senza appello. Oggi anche questo sistema sta implodendo, anzi direi che è imploso. Risultato? Si cerca di tenere su con tutti i mezzi un generico “governo” delle cose e delle persone che non giova ormai più a nessuno. Si noti, poi, che se è ancora vera la suddivisione dei poteri montesquieuiana, la cesura più netta del sistema partitico rispetto alla rappresentanza è avvenuta a livello legislativo: si discute spesso, e tanto in questi giorni, del fatto che i partiti siano incapaci di effettuare un controllo interno credibile, il che espone rappresentanti di primissimo livello ad accertamenti quantomeno imbarazzanti da parte della magistratura…ma davvero poco o nulla si discute del fatto che quegli stessi rappresentanti delegano l’intero loro potere a terzi, siano questi lobbisti, imprenditori o grandi elettori, vuoi perché i partiti oggi non solo non riescono a selezionare, ma sono incapaci di formare la classe dirigente. Il risultato è che le comunità sono costrette a scegliere tra individui senza competenze, a volte incapaci, per cui la rappresentanza, già colpita duramente dalla massificazione e omologazione, nei fatti svapora. Si parla tanto di burocratizzazione della Comunità Europea, ma la realtà è che questo processo è nato nei territori, e passa per la trasformazione dei partiti. E se la rappresentanza senza governo porta instabilità, il contrario sappiamo bene dove porta».
Nel quadro istituzionale attuale sembra difficile definire quanto il Sud conti nelle priorità dell’agenda politica di governo. Quali sono secondo lei i motivi e cosa si può fare per riportare la questione meridionale al centro della partita?
«Se si pensa al Sud Italia, al Mezzogiorno, è evidente che in questa fase c’è l’incapacità di fare sistema. È un peccato originale di tutta una classe dirigente, ma non si ferma a questa: l’abbiamo visto con il mancato sviluppo prima e con la deindustrializzazione poi; si sono fatti strada individualismi che non hanno saputo, voluto o potuto rappresentare che delle meteore, per quanto notevoli o illustri. Ma dati e percezioni puntano tutti nella stessa direzione, e indicano qualcosa di più di un arretramento: è in atto uno smembramento del tessuto sociale, produttivo, economico e umano, aggiungerei; gli esempi in controtendenza sono pochi, e utili a verificare proprio la complessità e gravità del fenomeno, per cui – senza poter mettere le risorse a sistema – le occasioni, inevitabilmente, vengono sprecate. Se si pensa al Sud in una visione più ampia – in Europa, per esempio, o nel Mediterraneo – si colgono aspetti simili, che però hanno una portata più vasta. Pensiamo a ciò che sta avvenendo in Grecia: ovunque si sono create due fazioni, una contro l’altra, e su questa linea, l’unico effetto è l’esasperazione degli animi. Ma davvero qualcuno crede che si possa governare un continente con tradizioni e diversità millenarie dall’attico di un palazzo? Ci sono diversità e contraddizioni che non possono essere appianate con un tratto di penna: governare non vuol dire giudicare o parteggiare, e senza equità e solidarietà non si fanno ponti, ma muri. E i muri sono fatti per cadere: prima o poi una strada si troverà. Se poi guardiamo un po’ più in là, su quelle coste che guardano le nostre coste, stessa causa, stessi effetti, e talvolta identità di attori e moventi. E si passa dai milioni, alle decine di milioni alle centinaia di milioni di uomini e donne, che vivono di drammi e di speranze. Tutto attorno a un modello che è arrivato al capolinea. Lo sapevamo già quarant’anni fa, ma abbiamo fatto finta di non capire».
Qual è il peso specifico delle attività politiche locali e in che modo possono influire sulle dinamiche delle strategie globali?
«Credo che la risposta più semplice sia davanti ai nostri occhi. Per fare un esempio, si potrebbe guardare alla cura con cui i grandi marchi internazionali siano attenti a quella che, banalmente, è la reputazione. Adesso, se è vero che un potere enorme è riposto nei cosiddetti mercati, è anche vero che mai come oggi, grazie soprattutto a potenti ed efficaci strumenti di comunicazione, questo squilibrio – mai tanto enorme – può essere superato: le libertà individuali di scelta, se convogliate, possono là dove nessun altro strumento “tradizionale” potrebbe. Alla base del cambiamento possibile c’è la consapevolezza di questa enorme forza. E questa va provata già in piccolo, sui territori, attraverso forme di organizzazione spontanee e “contagiose”. Paradigmi ieri fondamentali oggi scricchiolano vistosamente sotto il peso di un’asimmetria insostenibile, e sono destinati a essere superati. Il tempo e il modo in cui ciò accadrà, sono le uniche scelte politiche che ci competono».
Sostanziali e rapide trasformazioni culturali e tecnologiche farebbero pensare che in fondo non si stia peggio rispetto al secolo scorso. Eppure, tra la gente si coglie una diffusa sfiducia nel futuro. Come si spiega questa che sembra essere un’apparente contraddizione?
«Miglioramenti considerevoli della qualità della vita dei singoli sono derivati dal binomio progresso tecnico ed economico. Le comunità ne hanno tratto un giovamento considerevole perché la politica, anche al prezzo di scontri durissimi, ha saputo ritagliare uno spazio comune senza il quale non sarebbe stato possibile costruire un paese moderno, e mi riferisco, in particolare, al secondo dopoguerra. In quello spazio comune, con fatica, si è cercato di disegnare l’impalcatura di una società complessa, in primo luogo con una istruzione per tutti, competenze di ogni tipo e livello, quindi infrastrutture, che hanno consentito altre competenze e iniziativa privata, che hanno generato progresso tecnico ed economico, in un circolo virtuoso che ha consentito al sistema paese di diventare una delle prime potenze industriali al mondo. Questo processo però si è interrotto prima, ed è stato sovvertito poi, vuoi perché gli interessi in gioco sono enormi, vuoi perché il presidio democratico, banalmente, non ha funzionato. E, quando il primato della politica è stato soppiantato da scelte personali, il meccanismo si è inceppato. È stato tenuto in piedi finché si è potuto con scelte “creative”, ma sfido chiunque a contraddirmi sul fatto che “si sapeva”: non avrebbe retto. La globalizzazione, il mercato, la finanziarizzazione dell’economia, hanno poi fatto il resto. Il risultato è che oggi ci troviamo in un sistema in cui, per la stragrande maggioranza delle persone – indipendentemente da meriti o demeriti personali –, il fatto che i figli staranno peggio dei padri è una certezza. È questa la più profonda causa di sfiducia. Ma cosa è accaduto per le comunità? Alcune se la sono cavata meglio di altre. Certe periferie si sono svuotate, per non riempirsi mai più. Oggi assistiamo a una periferizzazione delle città: prima se ne sono andate le industrie; il precariato è stato sdoganato; la grande distribuzione è passata di mano; i presìdi della comunità hanno iniziato a scricchiolare; poi sono stati i negozi a chiudere; la precarietà è diventata l’unica certezza… il resto è storia di oggi. In linea di massima, non si sta peggio: non si sta, semplicemente. Si parla della disoccupazione giovanile, che nel Sud riguarda un giovane su due, perché non si ha più il coraggio di guardare il dato complessivo. Ma quelli che sono stati, in modo proprio o improprio, ammortizzatori sociali di questa comunità, stanno venendo meno, e questo apre prospettive sociali ed economiche, soprattutto nei centri urbani, che conosciamo solo attraverso la letteratura di fine ‘800… E poi, chi o cosa dovrebbe renderti fiducioso? Questo avvilisce, ci sentiamo disarmati, noi non abbiamo e gli altri non ci vogliono dare i mezzi. Felici, poi… ne parliamo tra qualche anno».
La felicità è un argomento politico?
«La felicità potrebbe essere un argomento di discussione molto serio e molto più concreto di quello che sembra. E non bisogna far necessariamente ricorso alla retorica PIL di cui, molti dopo Kennedy, si sono riempiti la bocca. L’argomento è realmente rivoluzionario. Tutto dipende dal fatto che ci possa essere una generazione, in questo paese, che vorrà fare un sofferto e disinteressato regalo alle generazioni successive. In Italia è già successo: È la Costituzione, e quei ragazzi sono i veri padri fondatori. Il loro sacrificio, le loro storie, possono essere il monito per iniziare di nuovo a pensare alla felicità come parte di un progetto politico».
Peppe Sorrentino