PREMIO “GALANTE OLIVA” 2019. INCONTRIAMO JESSICA MATTEO, VINCITRICE DELLA SEZIONE TESI CON “L’ANTIFASCISMO MILITANTE A ROMA, 1970 – 1976: PAROLE PUBBLICHE E MEMORIE PRIVATE”.

Lei ha redatto – nell’anno accademico 2012/2013 – la Tesi Di Laurea in Storia Contemporanea “L’antifascismo militante a Roma, 1970 – 1976: parole pubbliche e memorie private”!

Come mai ha scelto di trattare un argomento così delicato e difficile? E perché si è limitata al periodo 1970 – 1976?

«È una bella domanda che mi sono rivolta diverse volte anche negli anni successivi alla discussione della tesi, soprattutto per la “durezza” dell’argomento: la violenza politica.  Infatti, non mi sono resa conto – durante le fasi del lavoro di ricerca – della difficoltà di trattare tale argomento e ci ho riflettuto solamente in seguito! Nella redazione della tesi per la laurea triennale mi ero già occupata di antifascismo: quello dei giovani con le magliette a righe, protagonisti delle giornate del luglio ‘60. La tesi magistrale è stata l’occasione per continuare l’indagine sul tema dell’antifascismo, infatti mi interessava addentrarmi in un decennio di cui non sapevo nulla e che all’università non veniva quasi mai trattato: gli anni Settanta, appunto!

Ero curiosa e volevo colmare dei vuoti che erano sia personali che politici. Inizialmente, la tesi verteva sull’antifascismo dei gruppi di lotta armata, poi – studiando la letteratura critica – ho trovato l’espressione “antifascismo militante” ed ho spostato la mia attenzione su questo argomento misterioso che non aveva un suo spazio all’interno della storiografia.

Ecco, è iniziata così!

Relativamente alla scelta del periodo, ho limitato l’analisi agli anni fra il 1970 e il 1976 in quanto si tratta del periodo intercorrente tra le bombe di piazza Fontana e l’entrata in scena del Movimento del ’77 ovvero due momenti periodizzanti, insieme ad altri, del decennio Settanta.

La pratica antifascista, certamente, non è circoscritta a questo arco temporale! L’“antifascismo militante” non nasce con la strage di piazza Fontana, ma da quel momento si connota come tale. Nel giornale “Lotta Continua”, infatti, l’espressione compare la prima volta in un numero del novembre 1970. Dopo il 1976, le organizzazioni della sinistra extraparlamentare continuano a scontrarsi con quelle neofasciste, ma – con i cambiamenti dei gruppi –  la lotta antifascista si carica di altri significati.»

Ha utilizzato quale fonte “scritta” della sua ricerca a Roma, negli anni compresi tra il 1970 ed il 1976, il giornale “Lotta Continua” (prima quindicinale, poi quotidiano, dalla cui consultazione emerge “una forma di ossessione, quasi, nei confronti del problema fascista”) ed “un corpus di fonti orali” costituite da 13 interviste a persone nate tra il 1943 ed il 1958!

Partendo dalle fonti può sintetizzare la sua analisi sullo scontro tra l’antifascismo militante e il nuovo squadrismo fascista?

«La domanda da cui sono partita era se il fenomeno potesse essere studiato nella sua specificità, prescindendo dalla lotta armata di cui era considerato il prodromo nella maggior parte degli studi sulla violenza politica degli anni Settanta.

Per provare ad affrontare questa questione ho interrogato fonti storiche di natura diversa: la fonte scritta, il giornale “Lotta Continua”, dà una narrazione coeva agli avvenimenti studiati; la fonte orale, il corpus di interviste agli ex militanti, mette in gioco due tempi della narrazione, quello degli avvenimenti (gli anni Settanta) e quello del racconto (il 2013, l’anno in cui ho condotto le interviste). L’incrocio di queste due fonti è stato prezioso ed ha reso possibile l’emergere di alcune caratteristiche proprie dell’“antifascismo militante”: il ruolo centrale del territorio, l’uso del paradigma partigiano nella costruzione dell’identità antifascista e il complesso racconto della violenza agita.»

Il giornale “Lotta Continua” dedicava ampio spazio alla lotta antifascista, alla “teorizzazione della violenza” ed alla narrazione degli scontri con gli squadristi!

“Lotta Continua” era anche un’organizzazione che ha avuto un ruolo essenziale nell’evoluzione – anche verso la violenza – dell’antifascismo militante?

«Certamente il gruppo “Lotta Continua” ha avuto un ruolo nell’affermazione dell’“antifascismo militante”, non solo con gli articoli del suo giornale, ma anche e soprattutto con la sua forte presenza e attività politica sul territorio. Una parte delle persone che ho intervistato militava in “Lotta Continua” e mi ha raccontato che la lotta antifascista era centrale per l’organizzazione.» 

Lei ha scritto:“Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, il territorio, in ogni quartiere, da quello borghese a quello proletario, si copre di sedi della sinistra extraparlamentare, da un lato, e del Movimento Sociale Italiano, che raccoglie gli elementi dell’estrema destra, dall’altro.”“Non è un caso che due episodi, una sorta di prologo ed epilogo della storia della guerra civile tra antifascisti e neofascisti a Roma, siano avvenuti proprio nell’università La Sapienza.”

Lei ha analizzato l’antifascismo militante, fenomeno comunque nazionale, ed il quotidiano scontro tra neofascisti e antifascisti militanti, nella città di Roma, in particolare nell’area Nord!

Tale situazione viene riportata sul giornale “Lotta Continua”, poiché la maggior parte degli articoli sulle azioni dei militanti rivoluzionari, o da questi subite, sono relativi a Roma. 

Come mai ha voluto analizzare nella sua ricerca la violenza politica di quel periodo in un territorio specifico come quello di Roma?

«Credo che lo studio approfondito di una singola realtà territoriale permetta di mettere in luce gli aspetti generali e nazionali di un fenomeno ed, infatti, nella mia ricerca ho provato ad assumere un approccio microstorico. Le città erano i teatri dello scontro e Roma era uno dei principali: nel corso degli anni Settanta si sono susseguiti una serie di episodi chiave e periodizzanti per la storia dell’“antifascismo militante” come l’incendio di Primavalle o l’uccisione di Walter Rossi (entrambi avvenuti nell’area Nord della capitale). Mi sembrava che iniziare da Roma potesse essere un buon punto di partenza tenuto conto che è la città dove ho deciso di trasferirmi per studiare e che conoscevo meglio

Le scuole diventano “un laboratorio politico quotidiano” e l’importanza di svolgere la battaglia tra fascismo e antifascismo in questo luogo è chiara anche alle organizzazioni coeve di ambo le parti.”

Per questo, inoltre, alle azioni che si svolgono negli istituti scolastici partecipano anche i militanti adulti e alle assemblee studentesche prendono la parola anche i vecchi combattenti.”

È chiaro ed evidente il contrasto tra i “nuovi fascisti” e i “nuovi partigiani”! Che cos’è la “Controinformazione”?  Quale ruolo ha la “Scuola” in questo scontro e in quale misura? 

«La “Controinformazione” e la “Scuola” sono entrambe fondamentali per la comprensione dell’“antifascismo militante”.

La “Controinformazione” è uno strumento politico largamente utilizzato dalla sinistra extraparlamentare negli anni Settanta. È un’opera di inchiesta e raccolta di informazioni dal basso volta a fare chiarezza su notizie poco limpide o omesse dai mass media.

Un caso emblematico di “Controinformazione” è “La strage di stato. Controinchiesta (Samonà e Savelli, Roma, 1970)” sulle bombe di piazza Fontana; tuttavia, tali operazioni sono anche alla base dell’attività antifascista, ad esempio “Lotta Continua” pubblica il Rapporto sullo squadrismo (1970 – 71) e Basta con i fascisti (1973).

La “Scuola” è il luogo dove i più giovani si politicizzano, mostrano la propria appartenenza politica – ad esempio con l’abbigliamento o portando in tasca il giornale di sinistra o di destra – e si trovano inevitabilmente fianco a fianco col proprio nemico.

La scuola diventa, quindi, uno dei luoghi privilegiati dello scontro fra antifascisti e neofascisti, anche perché questo avviene soprattutto fra gli elementi giovanili dei gruppi politici, ovvero tra gli studenti medi. »

In un altro passo, possiamo leggere: “Un primo gruppo riguarda i nati tra il 1943 e il 1951, che negli anni considerati frequenta già l’università, e seconda generazione quella degli intervistati – dieci – nati tra il 1953 e il 1958, che, invece, vive l’esperienza antifascista principalmente durante gli anni di scuola superiore.”

Ciascun gruppo di militanti di Lotta Continua, Autonomia Operaia e Potere Operaio attribuivano all’antifascismo un significato differente!

Le interviste ai giovani, di allora, militanti nella sinistra extraparlamentare cittadina che hanno praticato l’antifascismo le hanno consentito di proporre una narrazione diversa rispetto al giornale “Lotta Continua”? In che modo? 

«Le interviste, diversamente dal giornale scritto e coevo agli avvenimenti, si caratterizzano per l’oralità e l’intreccio di due tempi, degli avvenimenti e della narrazione: la memoria individuale è un oggetto mutevole su cui influisce il vissuto personale, la memoria collettiva del gruppo politico è il racconto pubblico sugli anni Settanta e tutto questo emerge nell’intervista.

Inoltre, la fonte orale ha una natura intersoggettiva: il racconto che si costruisce durante l’intervista, momento unico e irripetibile, non esiste prima del dialogo fra intervistato e intervistatore che in quell’incontro mettono in gioco le proprie soggettività.

Le storie di vita degli intervistati – che ho lasciato liberi di raccontarsi, non seguendo una griglia di domande prestabilite – hanno arricchito la mia ricerca permettendomi di ricostruire non tanto la storia del fenomeno, per la quale mi è venuta in aiuto la fonte scritta e la letteratura critica, quanto l’identità antifascista e il significato attribuito a quella esperienza.»

 “La conseguenza di tale atteggiamento informativo, che era alla base del lavoro di controinchiesta di “Lotta Continua”, è la teorizzazione della necessità dell’uso della forza, quindi la sua legittimazione, in quanto unica risposta considerata efficace contro la violenza dello Stato.”

“Contrariamente allo squadrismo appena descritto e con cui gli antifascisti si scontrano materialmente, i fascisti protagonisti della ‘strage di stato’ sono di un altro livello, non hanno una presenza fisica, in generale, nei luoghi della pratica antifascista della nuova sinistra, e, in particolare, a Roma. Le cellule neofasciste che hanno partecipato alla strage di piazza Fontana sono identificate, conosciute, per questo denunciate dal giornale, ma non sono un bersaglio da poter colpire con la propria azione militante perché sono assenti dal terreno di scontro.”

Dall’analisi delle fonti che idea si è fatta dell’organizzazionedelle “stragi di Stato”?

Da quel momento è cambiata l’opinione pubblica nei confronti degli scontri tra neo – fascisti e antifascisti e della violenza da essi scaturita? Ed, inoltre, quali erano gli obiettivi a cui volevano pervenire gli antifascisti?

«Le “stragi di stato” hanno toccato il mio lavoro solo trasversalmente; è stata una scelta: non volevo allontanarmi troppo dal mio oggetto di studio.

Sicuramente queste stragi hanno avuto un ruolo importante sia per l’opinione pubblica che per i militanti antifascisti e neofascisti, ma gli scontri di cui mi sono occupata erano “territoriali” riguardavano la difesa degli spazi e dell’incolumità fisica ed avvenivano fra militanti politici di schieramenti opposti, non contro gli apparati dello stato o contro i civili. Infatti, l’obiettivo a cui gli antifascisti volevano pervenire restava sempre quello di combattere il nemico neofascista, un nemico fisico e rintracciabile. Si tratta di due livelli diversi, seppure inevitabilmente intrecciati

Nicoletta Lamberti

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