Reggio Emilia. La testimonianza di Gerardo Rossi, tecnico di laboratorio all’Arcispedale Santa Maria Nuova
È la storia di uno dei tantissimi operatori sanitari impegnati nell’ex zona rossa.
Gerardo Rossi, per gli amici Dino, originario di Nocera Inferiore e tra pochi mesi compirà 27 anni. Nell’aprile 2018 consegue la laurea in tecniche di laboratorio biomedico alla Seconda Università degli Studi di Napoli e dopo pochi mesi, riceve la chiamata dal Policlinico di Modena dove, per quasi un anno, ha lavorato in anatomia patologica: è la sua prima esperienza lavorativa nel mondo dei “grandi”. Poi si trasferisce all’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, dove, attualmente, è tecnico di laboratorio biomedico ed è impegnato presso il laboratorio “Autoimmunità, Allergologia e Biotecnologie Innovative” in cui, generalmente, si ricercano vari tipi di batteri ma ora combattono in prima linea per trovare una soluzione anti Covid-19.
L’ATTIVITÀ IN LABORATORIO.
«Per i primi giorni abbiamo fatto formazione ed abbiamo appreso celermente i meccanismi laboratori, d’altronde, data la nuova realtà emergenziale, si tratta di dinamiche inusuali, per tutti, anche per chi già lavorava da anni in laboratorio. Bisogna adattarsi ed essere il più efficienti possibile». Ora, Dino e i suoi colleghi, nonostante la stanchezza quotidiana e la paura con cui convivono pedissequamente da oltre due mesi, entrano in ospedale, indossano il loro camice e le mascherine protettive e danno il loro meglio poiché in laboratorio sono a stretto contatto con i tamponi di tutti i pazienti che hanno contratto il virus o si presume abbiano rischiato il contagio. «Ogni giorno arrivano da un minimo di 700 ad oltre mille tamponi, provenienti sia dal pronto soccorso interno all’ospedale e sia dall’esterno perché siamo diventati un centro di riferimento per Reggio Emilia e provincia. Il laboratorio è efficiente H24 e fornisce i risultati nel minor tempo possibile. Il team di lavoro è costantemente in attività e, ad oggi, nonostante i ritmi lavorativi siano alti e, a volte, stressanti, riesce a gestire quest’enorme mole di lavoro.
Il tecnico sanitario di laboratorio biomedico, quindi, è esecutore materiale di un’analisi di un campione biologico e svolge attività di laboratorio di analisi e di ricerca relative alle analisi biomediche e biotecnologiche, in particolare, di biochimica, di virologia, di immunologia e di microbiologia. In sostanza, dal tampone si cerca di individuare il virus attraverso delle tecniche di biologia molecolare utilizzando degli strumenti sensibilissimi dall’altissima percentuale di affidabilità. «Ma i tamponi non sono solo numeri. Certo che no. Dietro ogni tampone c’è una persona, con una propria storia e un proprio vissuto. – sostiene convintamente il dottor Rossi – In ogni numero, infatti, si cela la forza di non arrendersi ed andare avanti, l’emozione di ritornare a casa, la voglia di reagire per ritornare alla quotidianità, al dignitoso lavoro di tutti i giorni e poter, finalmente, dire “ce l’ho fatta!”. I pazienti affetti da Covid-19 non sono né meri numeri né untori, sono semplicemente essere umani da rispettare».
Si lavora in modo estremamente professionale ma con la paura di potersi ammalare nonostante si sia moniti degli appositi dispositivi di protezione individuale, con la costante preoccupazione per i pazienti, dei loro cari e, in fondo, anche per gli stessi sanitari.
I RAPPORTI INTERPERSONALI IN LABORATORIO.
I risultati ottenuti sui test dei pazienti, inoltre, incidono anche sullo stato d’animo degli operatori, alternando così lo stress psicologico alla serenità: è il cosiddetto “effetto collaterale” dell’adrenalina che stanno vivendo acuita dal dormire poco o male.
«Quando ci riuniamo, al mattino, in laboratorio, ci guardiamo l’un con l’altro, e senza dire niente, con lo sguardo, ci rassicuriamo e così hai tutta l’energia per affrontare la giornata, te la senti proprio dentro. – commenta Dino Rossi – Ciò ci rende orgogliosi del lavoro che stiamo facendo, è un aspetto bello del rapporto sincero che si è instaurato tra noi. È fondamentale, quasi necessario, aggrapparsi all’altra persona, a lavoro. Essere uniti ed organizzati ci fa sentire più forti, ci sosteniamo vicendevolmente per vincere questa battaglia per tutta la nostra comunità».
La loro “fortuna”, se così la si può definire, è che sono un gruppo di giovani lavoratori, volenterosi, in gamba, con tanta voglia di fare e che offrono le proprie competenze per contribuire alla risoluzione dell’emergenza sanitaria e ciò rende senz’altro tutto più semplice. «Cerchiamo di superare, piano piano, dignitosamente, questa difficile situazione. È una sfida dura, che è la sfida un po’ di tutti, fondamentalmente, ma abbiamo capito che la coesione è molto importante perché spegne tutte le tensioni individuali e permette di creare così, nell’ambito della vita lavorativa, un ambiente più gradevole ed affiatato, seppur impegnativo ma sicuro e tranquillo, con turni organizzati e carichi di lavoro ponderati. E, in quest’ottica, ognuno di noi, lascia fuori dal laboratorio le proprie inquietudini e le angosce.- ammette il tecnico sanitario di laboratorio biomedico nocerino – Poi, nei momenti di difficoltà, scorgo i sorrisi in ogni mio collega; e ciò che capto dai loro occhi rassicuranti, forse è più emblematico dei sorrisi che si vedrebbero normalmente sui loro volti e che, ora, si celano sotto ciascuna mascherina».
LA VITA TRA ALLOGGIO E LABORATORIO.
«L’azienda sanitaria ha deciso di isolarci dai nostri nuclei familiari per evitare possibili contagi e, perciò, ha messo a disposizione degli operatori sanitari – quasi tutti miei coetanei – una struttura alberghiera. La nostra vita, ai tempi del Covid-19, qui a Emilia-Romagna, è scandita tra il lavoro in laboratorio e il riposo in hotel. Ciò ci fa sentire un po’ meno soli perché condividiamo tutti la stessa condizione» assicura il sanitario.
GLI AFFETTI OLTRE IL LABORATORIO.
Tutto ciò a cui si era abituati, nella quotidianità, prima dell’avvento della pandemia, inizia inesorabilmente a mancare, facendo riemergere con forza anche le più fisiologiche esigenze. «Siamo stanchi ma carichi di uscire quanto prima dall’emergenza. Anche perché la nostalgia, in queste dinamiche, si fa sentire, in maniera più spinta, soprattutto, quando sei paralizzato in questo limbo e, quindi, fai di tutto per distrarti per affogare tutta la nostalgia che hai dentro. – confessa il giovane professionista –E vivi con la speranza che, prima o poi, la nostalgia si trasformerà in altro: la gioia di poter ritornare a casa, rivedere le persone che amo e a riabbracciare i miei affetti più cari. Infatti, già di per sé, è arduo vivere lontano dalla propria famiglia e dagli amici di una vita. Ora, in queste lunghe giornate, è tutto più enfatizzato. Ma riesco a colmare ciò, seppur parzialmente e rapidamente, grazie ai vari canali social di messaggistica istantanea».
IL DOPO COVID-19.
«Ovviamente la preoccupazione persisterà finché non debelleremo definitivamente questo virus, poiché in alcune zone del Paese il virus è ancora troppo diffuso e, fino ad allora, non dobbiamo abbassare la guardia, nonostante l’imminente allentamento progressivo e graduale delle restrizioni governative, dovremmo continuare a proteggerci, affidandoci anche al senso di corresponsabilità di ognuno di noi».
Devono essere queste forti emozioni di un giovane sanitario, lontano da casa, a spingerci a non demordere, a continuare ad essere ottimisti e speranzosi per il futuro perché abbiamo tanto da recuperare, per riconquistare il bene più prezioso che avevamo a portata di mano e che, spesso, abbiamo sottovalutato non dandogli il giusto valore: la libertà, quale l’opportunità di decidere le nostre priorità, il desiderio di muoverci incondizionatamente, la possibilità di programmare facoltativamente le nostre giornate senza alcuna limitazione coercitiva, la voglia di ritornare semplicemente a vivere, come prima dell’avvento di questa pandemia che ha completamente sradicato le nostre abitudine e convinzioni quotidiane. Magari con qualche consapevolezza in più. Dino ne è conscio: «Sarà un’esperienza che mi segnerà per sempre. Sia umanamente che professionalmente».
Vincenzo P. Sellitto