Quella strana voglia di abbracci
Sono stati giorni strani, un periodo in cui abbiamo temuto e pianto. Temuto per noi, per i nostri cari. Pianto per chi non ce l’ha fatta, per quelle bare trasportate da una colonna di mezzi militari. Pianto per malati che salutavano i loro famigliari per essere ricoverati, persone che non si sarebbero mai più riviste.
Abbiamo visto le nostre città vuote, le piazze silenziose, i monumenti a guardia delle nostre vite sospese. Il giorno era di notte, perché un sole svogliato si alzava su albe vuote.
Abbiamo osservato i visi stanchi dei nostri medici,
infermieri e operatori socio sanitari, nuovi guerrieri in lotta contro un
nemico invisibile, vile, che se la prende soprattutto con i più deboli…i nostri
anziani, la nostra memoria, coloro che hanno permesso le nostre conquiste
economiche e sociali. Siamo stati
reclusi per il nostro bene e abbiamo tenuto i nostri figli al sicuro, nelle
nostre case trasformate in prigioni dorate. Certo non per tutti è stato così,
in molte realtà la convivenza forzata ha generato drammi, esasperato animi e
quelle case sono diventate altre bare.
le saracinesche sono state abbassate e cosi sono rimaste, alcune non si
rialzeranno più. Stadi, cinema e teatri vuoti, su tutto ciò che era spettacolo
è calato un pesante sipario.
E ora siamo tutti un po’ più poveri, economicamente ed
emozionalmente. Siamo frastornati, confusi, cerchiamo riparo dietro le istituzioni
che, in molti casi, appaiono ancor più incerte di noi. DPCM, una sigla che è
finita per scandire le nostre giornate, le nostre attività. Quattro lettere che
sono state per lungo tempo foriere di norme per un nuovo modo di vivere. La
speranza appesa a dei decreti economici. Le promesse di assistenza economica spesso
disattese, tradite, altre volte usate come forme di distrazione di massa.
E’ stata una tempesta che ha generato diverse forme di onde, alcune veementi,
forti, che hanno preso vite e altre ne hanno complicato. Altre onde sono state
invece lunghe, di quelle che si avvertono appena ma che a lungo tempo fanno
stare male, di quelle che durano tanto, che dureranno ancora per molto.
Il governo, la politica, anche loro impreparati, forse vittime di scelte
scellerate da loro stesse partorite in passato.
Conflitti istituzionali, spesso dettati più da conflitti e manovre
elettorali che da situazioni contingenti, che hanno creato e creeranno solo
danni e confusione.
Ora è iniziata una nuova fase, dicono che siamo tutti più liberi, ma liberi da
cosa?
I ‘emergenza sanitaria è ancora lì e quella economica è solo all’inizio. Certo abbiamo meno ricoverati, i morti, nonostante i numeri siano ancora alti, sono sicuramente calati, ma il COVID19 è ancora lì, pronto a colpire non appena abbasseremo la guardia, con i sui circa 1400 contagi al giorno.
E la guardia sembra che l’abbiamo già abbassata, a giudicare
dalle immagini e dai commenti che circolano sui social, gli assembramenti senza
protezione, la vita sociale che
sembra valere più di una vita umana.
L’ora dell’ aperitivo più importante che una bara in un camion dell’esercito, e
non osiamo pensare a quando riapriranno i bar. Le corsette (senza mascherina)
che sembrano essere diventate oramai motivo di vita stessa, quella esigenza di
essere in forma che mal si coniuga con una malattia che proprio così ha
iniziato a viaggiare, forse anche lei su gambe che correvano.
Allora pare che tutto sia passato invano, che gli eroi per caso, i nostri camici bianchi, soprattutto quelli morti sul campo, sembra abbiano sacrificato per nulla, come tutto il personale medico e paramedico. Sembra che quelle saracinesche che non riapriranno, e quelle che potrebbero richiudere se non saremo saggi, non importino. Anche di fronte alla minaccia di una morte annunciata, come quella economica, le abitudini dettate da regole consumistiche, la frenesia di comportamenti performanti, sono sopra ogni cosa. Intanto ci apprestiamo a ripartire, in un mondo che può solo fare finta di essere come prima, perché nulla sarà come prima.
Cosa abbiamo imparato? Cosa ci è rimasto di questi due mesi? Forse nulla, a parte quella strana voglia di un abbraccio.
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Antonello Rivano