POLITICA. RIPARTIRE DAI TERRITORI
È l’esperienza quotidiana che ci fa ben comprendere alcuni concetti base: se non si conosce la medicina non si possono curare pazienti; oppure, se non si conosce la statica non si possono progettare grattacieli; o ancora, se non si sa lavorare il legno non è possibile fare il falegname…e così via.
Tutti abbiamo ben in mente che l’esperienza e la formazione sono necessarie per intraprendere una qualsiasi attività lavorativa con professionalità e rettitudine morale.
Questo concetto, tuttavia, sembra non essere valido per la “Politica” (rigorosamente con la P maiuscola). A partire dalla fine degli anni ’90 è, infatti, “passato” il concetto che “tutti” possono decidere, all’improvviso, di amministrare: un comune, una Regione o, addirittura, il Governo nazionale.
È un paradosso! Perché tutti, come principio base di ogni Costituzione democratica, possono accedere alla “vita” amministrativa di un paese, ma è nella condotta morale dell’individuo capire se si è in possesso di competenza e professionalità tali da poter esercitare proficuamente questo diritto.
È un paradosso! Perché, in realtà, non esiste un percorso di studi che consenta di raggiungere quella formazione necessaria a trasformare un buon cittadino in Amministratore. E sfugge, forse, un aspetto fondamentale: governare non equivale a dirigere un’azienda, il cui obiettivo è unicamente di natura finanziaria, ma un buon “Politico” è quello che raggiunge, nel rispetto di una stabilità finanziaria, un equilibrio sociale che consenta l’armonia di un Paese.
È necessario un percorso che formi alla “Politica”. Ma com’è possibile ricreare questo percorso?
Si! Ricreare, perché è al passato che dobbiamo volgere la nostra attenzione. Questa formazione avveniva, un tempo, nelle sedi dei partiti. In ogni comunità, anche la più piccola, i vari partiti, di respiro nazionale, aprivano le proprie sedi. Un grande vantaggio: in primis in quanto di sedi territoriali avevano nella propria centralità di azione proprio i territori in cui erano localizzate; in secundis, in quegli ambienti si creava il confronto ed i più giovani apprendevano l’arte della dialettica e del funzionamento “politico” di uno Stato.
Nel ’94 il grande terremoto giudiziario mette fine all’epoca dei partiti, come sopra ricordati, e nasce il periodo storico noto come II° Repubblica. Conquistano la ribalta “nuovi” partiti, per la maggior parte a carattere personale incentrati sulla scelta dell’individuo, in cui il dialogo, quando avviene, è incentrato sull’uomo e non sugli obiettivi e, la cosa peggiore, avviene la ritirata dai territori.
Dopo trent’anni raccogliamo i frutti di quanto seminato allora: una classe dirigente per lo più impreparata; un totale distacco politico dai cittadini periferici; l’avanzamento inesorabile di populismi; la ricerca del consenso non più su idee e programmi, ma sulla base di sondaggi e “like social”.
Ecco perché non credo sia necessaria la nascita di nuovi soggetti politici, ma sia fondamentale la rinascita di una scuola politica. E come può essere possibile questa rinascita se alla sola parola “partito”, oggi, la maggior parte dei cittadini rabbrividisce? Come possiamo immaginare di far riavvicinare i cittadini alla politica attiva?
È una sfida difficile, ma necessaria per il futuro del Paese, e forse, la chiave sono proprio quelle componenti della società che sono a diretto contatto coi territori e svolgono un ruolo di promozione sociale e culturale: le associazioni.
Non immagino che associazioni confluiscano in schemi di partito, vincolati a segreterie estremamente burocratiche.
Al contrario, immagino che le associazioni, in pratica, si trasformino in “contenitori” e “laboratori” che facciano incontrare l’esperienza con la formazione. Potremmo trarre due benefici immediati: il riavvicinamento della classe politica ai territori e la partecipazione della società civile alla “res pubblica”.
“Una Democrazia senza popolo è sempre una democrazia debole, impotente ed insufficiente” affermava Pietro Nenni. Aristotele ci raccontava della “Politeia” e Platone non conosceva altra possibilità di governo oltre la Democrazia.
Ecco! Quindi se, da un lato, le associazioni possono essere fucine di idee, anche ottime, dall’altro lato, a nulla servirebbero in assenza del consenso. L’incontro con la “vecchia” generazione potrebbe istruire e formare la “nuova” generazione nella ricerca, attraverso la dialettica e l’approccio sociale, del consenso necessario per poter, poi, rendere applicabile le idee.
Credo che il mondo associativo sia fondamentale e ritengo sia necessario ricominciare da una politica del territorio che sia rappresentativa dello stesso. Il punto di partenza e d’incontro, forse, potrebbe essere proprio questo. I partiti nazionali dovrebbero avvicinarsi ed aprirsi alle associazioni, portando all’interno un bagaglio di esperienza e risonanza reciproco. Dovrebbero, fino a quando non cambierà questa scellerata legge elettorale, indicare nei collegi, unicamente candidati di riferimento dei territori e, quindi, realmente rappresentativi degli stessi. Dovrebbero evitare tecniche tipo: “paracadute” o candidare “alcuni” nei collegi definiti sicuri.
Ecco! Questo potrebbe essere un buon compromesso per cercare di ricucire uno strappo coi territori che, ormai, dura da troppi anni e cercare di formare nuove classi dirigenti che non siano scelte solo per successione ma, soprattutto, per competenze e passione.
Lo dobbiamo alla memoria dei nostri Padri, lo dobbiamo a noi, lo dobbiamo ai nostri figli.
Francesco Saverio Minardi